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Referendum 2022, il primo quesito: abolizione del decreto Severino

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Quando fu approvato definitivamente – era il 31 dicembre 2012 – il decreto legislativo Severino si conquistò le prime pagine dei giornali ed ebbe una grande risonanza internazionale. Era una pietra miliare nella lotta alla corruzione. E nell’imporre una piena garanzia di trasparenza ai suoi organi politici rappresentativi – dalle Camere a scendere verso i più piccoli Comuni – l’Italia metteva a segno un passo importante.

Nell’ambito di una legge sulla corruzione firmata dall’allora prima Guardasigilli donna, l’avvocata Paola Severino, ecco un decreto che imponeva la non candidabilità e la decadenza nei Parlamenti italiano ed europeo, e anche nel governo, per tutti coloro che fossero stati definitivamente condannati a due anni, nonché la sospensione per gli amministratori locali, ma nel loro caso anche per una condanna non definitiva. L’anno dopo, il 27 novembre 2013, il decreto Severino fece la sua prima “vittima”, per giunta eccellente, perché il Senato votò la decadenza di Silvio Berlusconi, condannato ad agosto di quell’anno per frode fiscale a 4 anni nel processo Mediaset.

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Adesso, con sole quattro righe, Radicali e Lega vogliono cancellare del tutto il decreto Severino. Il quesito è secco: “Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235?”. Il Sì lo cancella per sempre. Il No lo salva. Altrettanto lo salva l’eventuale mancanza del quorum. Se i votanti non superano il 50% anche di un solo punto il referendum “muore” automaticamente.

Come si sono schierati i partiti?  Il Sì arriva dai proponenti, Lega e Radicali. Sì convinto  anche da Forza Italia, e pure da Azione di Carlo Calenda. Sì dei renziani. È contraria invece Fratelli d’Italia. Come anche Pd e M5S.

Ma nel Pd va registrata la dissidenza degli amministratori locali. Come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Il quale sostiene che non sia accettabile la sospensione di un sindaco o di un assessore solo a seguito di una condanna in primo grado per reati minori. Tra i quali fa la parte del leone l’abuso d’ufficio, anche se progressive modifiche ne hanno via via attenuato la portata. La sospensione, in vista di una condanna che potrebbe anche non esserci, secondo Gori, “è contro il principio della presunzione di innocenza”, tant’è che il Parlamento avrebbe già dovuto cambiare la legge, “ma non l’ha fatto”.

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A Repubblica, a marzo, subito dopo il via libera della Consulta a cinque degli otto referendum (inammissibili invece eutanasia, cannabis, responsabilità civile diretta dei giudici), l’ex Guardasigilli Severino ha ipotizzato possibili modifiche proprio sulla sua legge: “Ho sempre detto che le norme vanno monitorate. Se l’applicazione di quella legge, specie in riferimento all’abuso di ufficio, ha portato a constatare che molte di quelle sentenze venivano modificate in appello, è legittimo che si suggerisca una modifica. Poi ci sono anche altri progetti in corso”.

Ma in ben due occasioni – nel 2015 e nel 2016 – la Corte costituzionale ha affrontato due ricorsi contro la legge, rispettivamente dell’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, e del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Condannati entrambi in primo grado per abuso d’ufficio contestavano, rispettivamente, il primo la validità della legge anche reati commessi prima della sua approvazione, e il secondo la disparità di trattamento tra parlamentari nazionali e amministratori locali, i primi costretti a lasciare l’incarico dopo una condanna a due anni, i secondi sospesi anche dopo il primo grado di giudizio. La Consulta – con due sentenze firmate dall’amministrativista Daria de Pretis – ha bocciato i ricorsi. Nel caso De Magistris perché l’applicazione retroattiva era possibile trattandosi di una garanzia dell’effettiva trasparenza delle funzioni pubbliche. Nel caso De Luca invece la diversità delle funzioni giustificava a sua volta le diverse sanzioni previste dalla Severino. Comunque, sia De Magistris che De Luca, sono poi stati assolti in Appello.

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