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“Io ora sono al sicuro, ma ho paura che tutto quanto è stato costruito e per cui mi sono battuta in questi anni vada distrutto”. Sì, adesso Mareya Bashir è davvero al sicuro. Lontano dall’Afghanistan, e grazie all’Italia. Ma il pensiero dell’ormai ex procuratrice generale di Herat che per anni ha lavorato con i nostri magistrati, continua a essere sempre lì, nel suo Paese. Dove purtroppo le donne non solo hanno già perso le conquiste fatte, anche grazie al suo impegno negli ultimi vent’anni, ma vengono assassinate. Allora inevitabilmente, pure in un giorno di gioia, Mareya Bashir, la procuratrice che i talebani hanno anche cercato di uccidere e che adesso è una cittadina italiana, con il pensiero è laggiù dove vorrebbe ancora essere.
Il filo tra lei e la ministra della Giustizia Marta Cartabia è stato continuo. Adesso la Guardasigilli non nasconde la sua soddisfazione per la decisione del consiglio dei ministri che ha riconosciuto a Bashir la cittadinanza italiana. E condivide le preoccupazioni e le speranze della magistrata afghana. Glielo dice al telefono quando si sentono: “Dobbiamo fare in modo che quel germoglio dello stato di diritto, nato in questi 20 anni, possa continuare a resistere nelle nuove generazioni nonostante le avversità”. E Mareya scrive a lei e ai funzionari del ministero della Giustizia: “Spero di riuscire a lavorare per le donne afghane con l’aiuto degli amici italiani”.
Già, gli “amici italiani”. Quelli – magistrati, polizia, e forze militari – con cui ha lavorato per cambiare la storia del suo Paese. Il suo pensiero è lì quando dice a Cartabia: “Tutti i progetti che abbiamo realizzato a Herat insieme agli italiani hanno giocato un ruolo molto importante nel cambiare l’Afghanistan, e la gente era felice e soddisfatta degli italiani, perché non facevano nulla contro i sentimenti e la cultura del popolo”.
Per oltre due mesi la ministra Cartabia ha lavorato sul fronte afghano. Per salvare uomini e donne che avevano lavorato per la giustizia. Per portarli fuori. A cominciare dalla lettera, firmata con i colleghi di Francia, Spagna e Lussemburgo, al Commissario europeo per la Giustizia Didier Reynders per sollecitare l’aiuto formale della Ue. E in un colloquio con Repubblica del 29 agosto, pur con molto riserbo, Cartabia non aveva nascosto i contatti in corso per “salvare vite”. Eccola rivelare: “Sono personalmente in contatto con alcuni operatori di giustizia afghani. Dalle loro parole emerge anzitutto l’angoscia per il destino di quanti si sono esposti in prima persona, e per i loro familiari. Ma il loro pensiero è anche per il destino del loro Paese. Grande trepidazione mi è stata trasmessa per il timore che il lavoro di questi anni – di costruzione di uno stato di diritto, quel seme di cui tanti si sono presi cura e che hanno visto crescere lentamente e faticosamente – sia cancellato così, con un colpo di spugna”.
Tra questi contatti c’era quello con Mareya Bashir che del tutto fortunosamente era riuscita a lasciare l’Afghanistan ad agosto utilizzando un visto turco sul suo passaporto. Eccola ad Ankara, dove contatta l’ambasciata italiana. Grazie a un visto Schengen arriva a Roma il 9 settembre. Ad accoglierla, all’aeroporto, c’è Marta Cartabia con cui nelle settimane precedenti era stata in contatto continuo.
La tela di Cartabia
Per tre giorni Cartabia e Bashir hanno lavorato alla lista di quanti dovevano e potevano essere aiutati. Persone che, poco alla volta, sono uscite dall’Afghanistan. Ancora ieri, nella soddisfazione per la cittadinanza riconosciuta a Mareya, che rappresenta un segnale importante che va anche oltre la sua persona e la sua figura, nello staff di Cartabia era vivo il ricordo di come la procuratrice avesse mostrato una sola ossessione, salvare vite, scrivere nella lista i nomi delle persone da portare via. Una riga dopo l’altra si componeva la “lista di Mareya”, la lista di chi doveva essere sottratto a una morte quasi certa. E questo sentimento risuona nella sua pienezza nel messaggio che la procuratrice rende pubblico per ringraziare l’Italia del suo gesto.
La storia di Mareya Bashir
Del resto, tra la procuratrice Bashir e l’Italia, negli anni, si è creato un legame di grande solidità. È il 2001 quando al nostro Paese tocca la zona di Herat. È lì che Bashir già svolge il ruolo di pubblico ministero. Nata a Kabul il 16 aprile del 1970, nel 2006 viene nominata procuratore generale della provincia di Herat, una carica che veste fino al 2015. La collaborazione con gli italiani è intensa, soprattutto nel campo della giustizia e della protezione dei diritti e delle libertà fondamentali. Assieme ai giuristi italiani, Bashir contribuisce alla stesura della nuova Costituzione afghana. Viene riscritto anche il codice penale. Nel 2007 scatta una vendetta e subisce un attentato proprio fuori casa sua, a Herat. Due delle sue guardie del corpo rimangono ferite e una perde quattro dita di un piede.
Bashir ha rischiato più volte la vita. Già nel 1996, appena assunto l’incarico di pubblico ministero presso la procura generale a Herat, viene costretta dai talebani a lasciare il lavoro. Come tutte le donne del suo Paese anche lei reagisce in modo prudente ma deciso, promuovendo un’iniziativa che riguarda l’istruzione: organizza, fino al 2001, anno della caduta dei talebani, una scuola clandestina non solo per sua figlia Yasaman, ma per tutte le bambine del vicinato nello scantinato della sua casa. Il regime cerca in più occasioni di reprimere questa forma di “cittadinanza attiva”, con irruzioni in casa, mettendo sotto inchiesta suo marito e arrestandolo.
Nel 2015, Mareya Bashir ha fondato Bayat Adalat, uno studio legale impegnato nella difesa dei diritti delle donne, di cui è stata direttrice fino al momento in cui ha dovuto lasciare l’Afghanistan. Bayat Adalat in afghano significa “Deve esserci giustizia”. Sotto la guida Bashir, Bayat Adalat ha aiutato migliaia di donne afghane a prendere conoscenza dei loro diritti, portando in tribunale molti casi relativi a violenze domestiche. Gli avvocati di Bayat Adalat hanno difeso molte decine di donne afghane nei processi. Adesso Mareya Bashir vuole continuare, anche se da lontano, la sua battaglia.