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MILANO – Part-time molto flessibili, tarati sull’allattamento: si va in ufficio, si torna a casa quando è l’ora della poppata, si decide se continuare in smart working o tornare in sede. Se non c’è alternativa, i bambini entrano in ufficio: magari sarà una giornata meno produttiva, ma si recupererà. Solo fino alle 16 però: perché a quell’ora l’azienda chiude. “Non volevo scegliere tra il lavoro che mi dà soddisfazione e i miei figli che voglio veder crescere: e per questo la stessa regola vale per i miei dipendenti e collaboratori”.
Virginia Scirè ha 43 anni, è un’imprenditrice di Castelfranco Veneto che vende fasce e abbigliamento per portare i bambini. Qualche settimana fa, quando ha visto la stilista Elisabetta Franchi raccontare delle sue dipendenti “donne over 40 che possono lavorare h24 perché i figli sono grandi” ha fatto un video su Instagram per dire che un altro modo è possibile. Senza immaginare cosa sarebbe successo: “In pochi giorni ho ricevuto 500 curricula di donne che mi chiedevano lavoro. Ho letto tutto, abbiamo risposto a tutte, ma volevo fare qualcosa, trovare qualcuno che ascoltasse la loro voce”.
Così ha cercato Lia Quartapelle, parlamentare Pd, e le ha portato quei 500 pezzi di vita: una consegna simbolica, certo, ma come impegno a lavorare assieme per il congedo di paternità obbligatorio, nuovi servizi per la famiglia e tempo pieno vero nelle scuole. “Aziende che tengono conto delle persone e delle loro esigenze: è possibile. Costruire intorno a queste aziende un paese che aiuta i genitori che lavorano è necessario e anche giusto”, spiega Quartapelle.
Virginia Scirè ha deciso di provare a costruire qualcosa intorno ai suoi ritmi quando questi sono cambiati. “Ho iniziato a lavorare in una società finanziaria a Castelfranco, poi nel 2008 è nato il mio primo figlio, che aveva dei problemi di salute e necessità di ricoveri. Ero ancora in maternità, avevo partorito da tre mesi quando la mia società mi ha comunicato che mi avrebbero trasferito a Verona, a 110 chilometri da casa”. La maternità finisce: “Ho capito che non sarebbe stato possibile conciliare quel lavoro con quelle condizioni e la mia vita ma non avevo alternativa: così mi sono dovuta licenziare. Ed è stata una rinuncia, non solo economica”.
In quei mesi di maternità Virginia fa acquisti online per il bambino, e lì decide di provare ad aprire un negozio di abbigliamento su eBay, poi passa a un sito di e-commerce e a un ufficio fisico “così non dovevo stare sempre a casa”, poi un piccolo capannone e i primi quattro dipendenti, “tra loro Tania, che è ancora con me”, fino alla seconda gravidanza, nel 2013. “Mia figlia non dormiva mai, se non quando la prendevo in braccia, di lavorare non se ne parlava. Fino a quando un’amica mi ha regalato una fascia: la svolta”.
Il baby wearing diventa il suo lavoro, vende fasce e marsupi e, nel 2017 con una sorta di crowdfunding riesce a produrre la prima giacca per portare i bambini, adesso è uno dei punti di forza di WearMe. “Ma lavoravo tantissime ore, vedevo i miei figli al mattino e a sera tardi, mi sembrava di non fare bene l’imprenditrice, ma neanche la mamma”. In quel periodo Tania aveva avuto un bambino, “allora ho iniziato a riflettere su come impostare il nostro lavoro: in Germania tante aziende chiudono alle 16, chi mi impediva di fare lo stesso? Tania è stata la prima a sperimentare la flessibilità totale durante l’allattamento, e lo smart working per noi era una realtà prima della pandemia. Durante la seconda ondata, quando siamo tornati anche in ufficio, c’erano giorni in cui portavamo i bambini: loro erano in Dad, i nonni andavano protetti, la cosa migliore era quella”.
Oggi WearMe ha triplicato il fatturato (dai 180 mila del 2019 ai 610 mila del 2021, quanto i primi sei mesi di quest’anno, è stata inserita nell’incubatore SocialFare come start up di impatto sociale e Virginia Scirè ha due dipendenti e sei collaboratori per il team marketing che lavorano in smart working, dalla Puglia e dalla Spagna. Tutte donne, tranne uno, e sono donne e madri anche le due nuove dipendenti che firmano in questi giorni. Madri come quelle che, dopo quel reel su Instagram, le hanno scritto: “Tante hanno perso il lavoro perché non potevano avere il part-time, hanno diverse professionalità, livelli di istruzione e storie. Tante altre lavorano ma con il costante affanno di vedere i figli solo quando tornano la sera e di perdersi qualcosa”.
Ma gli uomini esistono in questa storia? “Sì, ci sono, e ce ne sono molto presenti: ma se non ci sono servizi o nonni non bastano neanche loro. Le madri e i padri dovrebbero avere entrambi la possibilità di crescere i figli”.