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Oggi si celebra la giornata internazionale del selfie. L’autoscatto digitale che ha inaugurato la civiltà dell’immagine condivisa. E ha rivoluzionato il rapporto che ciascuno di noi ha con la propria rappresentazione. Con la faccia pubblica di sé stesso.
In poco più di dieci anni, l’autoritratto social è diventato il più universale dei modi per comunicare. E la sua ascesa è stata inarrestabile. Il primo uso pubblico della parola risalirebbe al 13 settembre 2002, quando un utente australiano ha postato una sua foto sul forum dell’emittente ABC Online. E l’ha chiamata selfie. Questa è preistoria. Ma la storia vera comincia nel 2013, quando l’Oxford Dictionary lo elegge vocabolo dell’anno. E quasi immediatamente dopo, il termine fa il suo ingresso trionfale nel dizionario della lingua italiana Treccani.
Mille selfie al secondo
Adesso il fenomeno selfie è diventato una marea inarrestabile di foto in crescita esponenziale. Si stima che ne vengano postati almeno mille al secondo, in media cento milioni al giorno. Si scatta in ogni momento, si condivide in tempo reale. Di fatto la “selfite” non risparmia nessuno, politici, celebrità e persone comuni. Che si immortalano su qualsiasi sfondo e in qualsiasi occasione. Come Barack Obama a Soweto nel 2013 durante le esequie di Nelson Mandela con la premier danese Helle Thorning Schmidt e quello inglese David Cameron. O Francesco Totti nel 2015 all’Olimpico dopo aver rifilato una doppietta alla Lazio quando si è ritratto sullo sfondo della curva giallorossa in delirio. O il commovente fake dei cinque bambini indiani che simulano il selfie usando l’infradito al posto dello smartphone. E persino il Papa non osa deludere l’insaziabile fame di selfie dei fedeli.
Il trionfo dell’Io anche grazie alla tecnologia
L’importante è che io sia sempre in primo piano. Qualunque sia lo sfondo. Un matrimonio o un funerale, un summit fra capi di stato come una rimpatriata fra amici. Un tramonto indimenticabile o una sciagura come il crollo del ponte Morandi, la partenza per le vacanze o la cena nel ristorantino in riva al mare. Quel che conta è che io sia presente. Non solo per dire io c’ero. Ma per condividere emozioni e situazioni proprio mentre le sto vivendo. È il trionfo della prima persona singolare.
Se poi ci mettiamo anche la facilità d’uso delle nuove tecnologie il successo travolgente si spiega ancora meglio. Non occorre essere bravi fotografi. Tutti possiamo selfeggiarci. Basta scattare. Il resto lo fa il nostro smartphone. Ormai siamo tutti in grado di ritoccare, usare filtri, fotoshoppare la nostra faccia. Non resta che cliccare per viralizzarla.
In fondo la proliferazione e la condivisione della nostra immagine è anche figlia di quello che la grande scrittrice americana Susan Sontag chiamava “consumismo estetico”. Che, volenti o nolenti, è la cifra del presente.
Un’identità condivisa
Siamo spettatori e protagonisti di una mutazione antropologica che investe l’idea stessa di identità. Che diventa sempre meno singolare e sempre più condivisa, sempre meno fisica e sempre più digitale, meno individuale e più social. Di fatto il selfie diventa la sintesi visiva della nostra vita, minuto per minuto, giorno per giorno. La pagina di un diario che scambiamo con gli altri. È una nuova forma di comunicazione che sta fra la narrazione e la visione.
Narcisismo 4.0 o, piuttosto, nuova frontiera sociale dell’Io? Forse sono vere entrambe. Certo è che ormai siamo tutti dei “selfie made men”.