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Loggia Ungheria, le mezze verità dell’avvocato Amara e l’ombra di un burattinaio

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C’è un’arte – che per essere definita con perfezione avrebbe bisogno di un neologismo, come quelli di Andrea Camilleri che una storia come questa l’avrebbe potuta immaginare e scrivere – c’è un arte, si diceva, nella quale l’avvocato siciliano Pietro Amara è maestro: mescolare con sapienza vero e verosimile, fatti e leggende, cronaca e letteratura, al fine di rendere impossibile la distinzione tra ciò che è e quello che non è. In faccia resta soltanto polvere.

Ecco, lo speciale talento di Amara – uomo che per una decina di anni ha tenuto sotto scacco l’azienda più strategica del Paese, l’Eni, oltre a un pezzo importante della magistratura e di conseguenza anche della politica italiana – è ben descritto nelle quasi duecento pagine con le quali ieri la procura di Perugia ha messo un primo punto sulla storia della cosiddetta Loggia Ungheria. Che è la storia dello spettro, agitato alla bisogna davanti al naso del potere e degli uffici giudiziari, di una presunta associazione segreta in grado di pilotare nomine e incarichi, inventata o comunque impossibile da riscontrare.

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Uno spettro che si portava dietro, soffiate dal pifferaio Amara, calunnie, millanterie, invenzioni, ma anche una serie di circostanze reali. Alcune ne ha trovate e indagate la procura di Perugia, ma chissà quante altre ne sarebbero saltate fuori se la sistematica fuga di notizie – i verbali secretati delle testimonianze di Amara sono girati ovunque, dal Csm alle redazioni dei giornali – non avesse reso difficilissime, se non addirittura in alcuni casi impossibili, le indagini.

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A questo punto della storia, con Amara che esce ed entra da una galera, il procuratore Cantone che con l’archiviazione scrive una prima verità giudiziaria, i pm di Milano che sono al lavoro sulle calunnie dell’avvocato e altri pubblici ministeri che si apprestano a valutare le chiamate in correità, la domanda cruciale non è più “cosa ha detto Amara?”, ma “perché lo ha detto”? E, volendo andare ancora più al cuore della questione, per conto di chi?

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Partiamo dal perché: sarebbe disonesto bollare tutte le parole di Amara come fandonia. Cantone lo spiega bene nella richiesta di archiviazione: diverse circostante descritte dall’avvocato siciliano, a un primo riscontro, risultano vere. Vere sono le raccomandazioni mendicate da alcuni professionisti e magistrati. Vera, seppur priva di ogni valenza penale, è la vicenda, di cui Amara ha dimostrato di essere perfettamente a conoscenza, dell’omologazione del concordato preventivo di Acqua Marcia, dove svolse il suo lavoro di avvocato l’ex premier Giuseppe Conte. Il passo successivo – l’esistenza della fantomatica loggia Ungheria – è invece quello che allontana dalla verità. Ma di sicuro della Loggia esisteva lo spettro.

Più volte è stata evocata in Sicilia e a Roma, su tavoli che contano: un gruppo di 90 personalità, di cui pare esista anche una lista scritta, in grado di pilotare e manipolare, così verosimile da indurre almeno due soggetti a prendere il telefono e chiederne di farne parte. “La Loggia era una mia idea”, ha ammesso Amara interrogato a Perugia, come a volersi giustificare.

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Perché quest’invenzione, se invenzione è stata? A chi ha giovato? Certo non a lui, avvocato d’affari e di relazioni da milioni di euro rimasto ormai solo con qualche verità e molta immaginazione. Ha giovato invece a chi – e le indagini, in questo senso, hanno raccolto molto – aveva interesse a sventolare lo spettro di “una nuova P2”, che rendeva equivoco il confine tra chi infrange la legge disonorando il proprio mestiere e chi, invece, è soltanto la povera vittima di un pupo scaltro e affabulatore. Abilissimo a nascondere, nelle sue mille dichiarazioni e mille testimonianze, il puparo da cui si fa muovere. 

In fin dei conti, oggi, con una procura scrupolosa come quella di Perugia che dopo quasi due anni di indagine chiede l’archiviazione per gli indagati della Loggia Ungheria, la risposta che ancora manca all’enigma è: chi muove l’avvocato Piero Amara?

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