[ Leggi dalla fonte originale]
Un sorriso dolce e mesto: «Saluto tutti quelli che mi hanno voluto bene. Ciao». Se n’è andata così Elena, con la voce sottile e il coraggio di un leone, lasciando un video che è un limpido testamento di amore per la vita. «Mi sono trovata davanti ad un bivio. Una strada più lunga che mi avrebbe portato all’inferno, una più breve che poteva portarmi qui in Svizzera, a Basilea: ho scelto la seconda». Sono le parole di Elena, 69 anni, di Spinea, un marito e una figlia, affetta da un gravissimo tumore, (microcitoma polmonare) che ha chiesto a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, di essere accompagnata a morire a Basilea, con il suicidio assistito che in Svizzera è legalizzato. Dalla stanza della clinica nella quale dopo poche ore morirà, Elena ha registrato un video – lucido e straziante – in cui testimonia la sua libera e inappellabile scelta, ma accusa, anche, il nostro paese di averla costretta ad emigrare per poter morire con dignità. «Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia, la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e quindi sono dovuto venire qui da sola».
In Italia, dove il suicidio assistito è depenalizzato in determinate circostanze, così come ha stabilito la sentenza della Corte Costituzionale sul caso di Dj Fabo, e come è avvenuto per “Mario” cioè Federico Carboni poche settimane fa, il caso di Elena, paziente oncologica, non è contemplato. Marco Cappato, avendo accompagnato Elena a Basilea, si autodenuncerà, oggi, ai carabinieri di Milano, per questo atto di disobbedienza civile, con il quale avrebbe violato l’articolo 580 del codice penale sull’istigazione al suicidio.
Un chiaro atto politico, così come fu per Dj Fabo, per denunciare le carenze della legge in discussione sul suicidio assistito, che crea discriminazione tra pazienti. Cappato rischia, in teoria, 12 anni di carcere. Molto però è cambiato, dai tempi del processo a Cappato del 2017. sul caso Fabo. In mezzo c’è la decisiva sentenza della Corte Costituzionale del 2019, che depenalizza di fatto il suicidio assistito. Soltanto però se sussistono determinate condizioni. La libera scelta del paziente, una malattia irreversibile, l’essere dipendente da sostegni vitali, (nutrizione artificiale. farmaci salva vita) e il il patire sofferenze insopportabili.
Il nodo della storia di Elena è questo: non era sostenuta, al momento della morte, da sostegni vitali, dunque secondo le regole della Consulta, nell’accompagnarla, Cappato avrebbe violato il codice penale. Quei sostegni vitali sarebbero sopraggiunti in una fase ancora più avanzata, quando Elena, non sarebbe più stata in grado di respirare da sola. Soltanto allora, attanagliata dal rischio di soffocamente, Elena avrebbe avuto diritto ad effettuare il suicidio assitito in Italia.
Elena aveva ricevuto la diagnosi di microcitoma polmonare nel luglio del 2021. Poche, le speranze fin da subito, eppure Elena ci aveva provato a curarsi. Po il verdetto: una manciata di mesi davanti a sè e la discesa negli inferi della sofferenza. «Non ho nessun supporto vitale per vivere, non potevo fare altro che aspettare. Ho deciso di terminare la mia vita prima che fosse stata la malattia, in maniera più dolorosa, a farlo. Ho avuto la comprensione e sostegno dalla mia famiglia. Ho chiesto aiuto a Cappato perché non volevo che i miei cari accompagnandomi potessero avere delle ripercussioni legali per una decisione che è sempre stata solo mia».
Un addio in 4 minuti, un atto di accusa verso l’Italia che l’ha separata dagli affetti più cari alla vigilia dell’ultimo viaggio.