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L’inizio e la fine, alle volte, combaciano. Per Eleonora Manta e Daniele De Santis, l’Uroboro che si morde la coda sta in una fotografia: Eleonora, sorridente, con un dolce in mano. Una Camilla alle carote, per l’esattezza. Niente di pretenzioso. Una merendina da supermercato perché per festeggiare, se si è felici, il poco diventa tutto. Quel 21 settembre 2020 è stato una giornata faticosa sia per Eleonora che per Daniele. Il trasloco, l’afa, le notizie sulla possibile nuova ondata di contagi. Eleonora ha trent’anni, Daniele trentatré. La Camilla alle carote serve a celebrare l’inizio dell’avventura più grande di tutte: andare a vivere insieme. Il grande passo, insomma. È tempo, sono pronti.
Di mestiere Daniele amministra alcuni condomini e gestisce un Bed & Breakfast, Eleonora, dopo la laurea in Giurisprudenza, lavora in un ufficio dell’Inps. Due ragazzi così normali che la foto del 21 settembre, scattata alle 20 e 44, sembra uscita dai giorni in cui, per apprezzarne il risultato, bisognava fare la fila al negozio di articoli fotografici. Una foto priva di filtri, scenari mozzafiato o luci calibrate al millimetro. Non è roba da Instagram. Verrebbe da chiamarla: preistoria da XX secolo. Ma non è il XX secolo e non è nemmeno l’età della pietra, anche se, alla fine, è sempre l’Uroboro che bisogna percorrere.
Mentre Daniele scatta quella foto ad Eleonora, Antonio De Marco è già dietro la porta del loro appartamento. In silenzio. Perché ad Antonio, anche se non fa che digitare le sue verità sul laptop del computer, le parole mancano. Gli fanno una paura del diavolo perché le parole sono emozioni e le emozioni sono per i deboli. E lui, quel 21 settembre, vuole scaricare quella paura su Daniele ed Eleonora. I deboli si devono sacrificare per il bene dei forti. I forti come lui.
Fino ad agosto, Antonio è stato il coinquilino di Daniele. Con un contratto regolare perché al fidanzato di Eleonora piacciono le cose fatte per bene. Non per niente il suo hobby sarà quello che, il 22, lo qualificherà sui giornali della nazione: faceva l’arbitro di calcio. Antonio, che se ne sta con i pugni nella felpa e il cappuccio calcato sulla testa, ascoltando i rumori del civico 2 di via Montello, fra il centro storico di Lecce e la stazione dei treni, ha ventuno anni e studia da infermiere. Nella sua mente: una lista di cose da fare, parole vuote come i suoi deliri di onnipotenza e immagini come quelle raccattate nel web che le forze dell’ordine troveranno sul suo computer. Atroci, cruente, ma per Antonio irreali come i cartoni animati in cui, se ti cade un’incudine in testa, al massimo vedi gli uccellini.
Antonio, acquattato nell’ombra, è convinto di conoscere le regole del delitto perfetto. E siccome è un tipo pedante, si è appuntato tutto su alcuni foglietti che ha infilato nelle tasche della felpa. Ad esempio: “Nastrare le dita”, “Prendere i guanti”, “Prendere coltello e fasciarlo”. Crede davvero di aver pensato a tutto: un coltello senza elsa, se si esercita una grande forza, provoca ferite sulla mano e Antonio non vuole che il suo DNA venga trovato dal RIS. Sarebbe da idioti farlo. Peggio: da deboli. Ha anche scritto: “Cambio maglietta”, “Slacciare scarpe”, “Coprire testa”. Antonio conosce la grande quantità di liquido ematico che lascerà sulla scena e sa che un tizio con i vestiti imbrattati di sangue attira sempre l’attenzione. Il ragazzino che sta al di sopra del Bene e del Male, quindi, è certo di poter anticipare ogni mossa della polizia: lui è forte. Sono quelli che festeggiano con una Camilla alle carote che non meritano di vivere.
È così scrupoloso, Antonio, che nei giorni precedenti ha controllato le telecamere della zona. Il tragitto per sgattaiolare via senza essere visto è mappato nei suoi appunti. In tasca ha anche una time-line, precisa, su cui ha appuntato ciò che farà una volta entrato: per questo ha con sé delle fascette da elettricista. Vuole torturare Eleonora e Daniele per “10/15 minuti”. Poi: “30 minuti di pulizie” con candeggina e soda che ha portato con sé insieme a una copia delle chiavi dell’appartamento. Dirà, il 28 settembre, quando verrà catturato: “Li ho uccisi perché erano felici”. Non è vero. Antonio non sa perché li ha uccisi. Antonio è frutto di un mondo che confonde l’opinione con l’universale, il sangue con i pixel. Un mondo in cui tutti sono innocenti perché tutti sono colpevoli. Poi, però arriva la realtà.
Antonio fa irruzione e l’unico motivo per cui Daniele non riesce a sopraffarlo è per via dello shock di trovarsi in casa una persona fidata armata di coltello. Anziché scagliarsi sull’aggressore, Daniele, forse perché pensa che Antonio non possa essere così folle, fa la cosa giusta: prova a chiamare il 112. Inutilmente. Antonio è una furia e le dita di Daniele si ingarbugliano. Il telefono fa uno screenshot e si blocca. Niente 112. A quel punto Daniele si butta fra Antonio ed Eleonora. È l’autopsia a dirci che era lei il vero bersaglio. E probabilmente Antonio, che pensa di avere tutto sotto controllo, nemmeno lo sa. I colpi inferti su Daniele sono fatti per rendere inoffensiva una minaccia, quelli su Eleonora: per annientare. Era una delle idee che Antonio si era appuntato. Voleva far sparire i cadaveri: bollendoli. Di Eleonora e Daniele non doveva restare nulla. Invece: la realtà. La lotta, Eleonora che grida e si trascina sul pianerottolo, perché Daniele ce l’aveva quasi fatta a salvarla, le settanta coltellate e poi la fuga. Scomposta.
Antonio perde i suoi preziosi bigliettini, lascia tracce di DNA sotto le unghie di Eleonora perché a uno come Antonio mai verrebbe in mente che una ragazza possa osare ribellarsi, e la sua fuga, sebbene duri una settimana, ha del ridicolo: Antonio non ha tracciato tutte le telecamere. Non ha pensato che le vittime non sono macabri sogni ad occhi aperti. Non ha pensato che lui, dell’efferato killer da film dell’orrore, ha solo la saccenza. Nel suo macabro piano c’era l’idea di lasciare una scritta sul muro ma, del contenuto, nei suoi biglietti non ce ne è traccia. Perché Antonio le parole proprio non sa cosa siano. Perciò: “Li ho uccisi perché erano felici”, non significa nulla. Sono solo la camera d’eco di un mondo che si nutre di paura, disprezzo di sé camuffato da onnipotenza: il nostro mondo. Un mondo in cui le parole ci hanno abbandonato.
Restano le immagini, come all’inizio della storia della nostra specie: ancora in cerca di un significato, ancora in balia delle nostre pulsioni più oscure. Così, eccolo ricomparire. Il serpente Uroboro che inizia là dove finisce: nella speranza di saper, un giorno, decifrare il mondo e scacciare il Male. La stessa speranza della fotografia, così intima e bellissima, di una ragazza che ci mostra, sorridendo, una merendina alle carote. Così normale. Così straordinaria.
(La serie che ripercorre delitti e crimini avvenuti in Italia durante l’estate: a raccontarli Luca D’Andrea, l’autore di “La sostanza del male”)