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«Misero in atto un’improvvida iniziativa», ripetono più volte i giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo nella sentenza depositata sabato: gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sono stati assolti in secondo grado, ma la trattativa segreta che svilupparono con Totò Riina tramite Vito Ciancimino dopo la strage di Capaci ebbe effetti devastanti. Sono drammatiche le parole che scrive la Corte a pagina 1844 a proposito delle stragi del 1993: «È provato che la risoluzione concertata tra i capi di Cosa nostra nelle riunioni seguite alla cattura di Riina fu nel senso di rimettere mano ai delitti eclatanti (…) l’obiettivo era proprio – e più che mai – quello di costringere lo Stato a trattare: anzi, di costringerlo a tornare a trattare».
I padrini si erano dunque convinti che la trattativa con lo Stato era un canale di dialogo fondamentale per avanzare le proprie richieste. L’abolizione del carcere duro, soprattutto. E furono organizzati gli attentati di Roma, Firenze e Milano. Proseguono i giudici: «I capimafia che concertarono quella decisione erano tutti al corrente della pregressa trattativa, poi arenatasi». Nel 1992, il dialogo segreto con Ciancimino non aveva avuto sviluppi, ma i fedelissimi alla linea di Riina volevano proseguirla quella trattativa. «Ne erano al corrente Matteo Messina Denaro, come lo stesso Brusca apprese dalla viva voce di Riina – scrive la Corte – nonché Bagarella e Provenzano. Ne era al corrente anche Giuseppe Graviano».
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I giudici rilanciano le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ha parlato del summit di Campofelice di Roccella: «Graviano ci disse che eravamo lì per pianificare un attentato contro i carabinieri, a Roma». Poi, per fortuna, il 23 gennaio 1994, non esplose l’ordigno che doveva travolgere un pullman pieno di militari, allo stadio Olimpico. Ma solo perché il telecomando non funzionò. «E non si può non convenire con la valutazione espressa dalla corte di primo grado – proseguono i giudici d’appello – secondo cui Spatuzza ha confermato in termini inequivocabili che obiettivo dell’attentato erano proprio e specificatamente i carabinieri e che lo scopo ultimo era di costringere chi di dovere a riprendere la trattativa interrottasi per fare ottenere benefici soprattutto ai mafiosi detenuti in carcere e non quella di vendicarsi per essere stati i carabinieri gli autori della cattura di Riina».
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Parole pesanti, che potrebbero diventare uno dei capitoli del ricorso in Cassazione della procura generale di Palermo: i giudici d’appello hanno assolto Mori e De Donno sostenendo che il loro fine nella trattativa era solo quello di evitare altri attentati dopo Capaci. Ma, nei fatti, come riconosce la stessa corte d’appello, quella “improvvida iniziativa” fece scaturire tre stragi. E solo per un caso non ce ne fu una quarta: «Un attentato, quello dello stadio Olimpico contro i carabinieri – scrivono ancora i giudici – che avrebbe fatto impallidire il ricordo di Capaci e di via D’Amelio per numero di vittime». Aggiunge la Corte: «Resta quindi confermato, sul piano fattuale, che la decisione di riprendere l’attività stragista ebbe come suo postulato la pregressa trattativa che si era svolta nell’estate nel 1992». Considerazioni che già i giudici di Firenze avevano fatto anni fa: «Dopo la prima fase della cosiddetta trattativa su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (capitano De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura e l’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione». Insomma, la trattativa avviata da Mori e i suoi non fu reato, ma diventò presto una drammatica (non solo “improvvida”) iniziativa. Mai una sentenza di assoluzione ebbe parole così dure, che sono un pesante giudizio storico. Le stragi che i mafiosi misero in campo nel 1993 per riprendere la trattativa avviata da alcuni uomini dello Stato fecero 10 morti. La vittima più piccola aveva due mesi, si chiamava Caterina Nencioni.