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Un suicidio. Liliana Resinovich, la sessantatreenne scomparsa a Trieste il 14 dicembre e trovata morta il 5 gennaio nel bosco dell’ospedale psichiatrico di San Giovanni, a un paio di chilometri da casa, si sarebbe tolta la vita da sola. La donna sarebbe morta 2 o 3 giorni prima del suo ritrovamento. E’ questo l’esito delle analisi eseguite dai consulenti della procura che hanno inviato la bozza – secondo quanto riporta l’Adnkronos – ai consulenti di parte. “Nulla è stato depositato, ad oggi, in procura”, assicurano dal tribunale di Trieste. Ma la bozza con gli esiti già comincia a circolare.
Nessuna violenza sul corpo
Le indagini della squadra mobile e della polizia scientifica, coordinati dal pm Maddalena Chergia, ormai da tempo stavano andando in questa direzione. Tanto che a distanza di mesi dalla scoperta del cadavere nessuno figura nel registro degli indagati. E né l’autopsia né la Tac avevano individuato alcun segno di violenza sul corpo della vittima.
Il ritrovamento
La donna si sarebbe allontanata dalla propria abitazione per poi addentrarsi nel parco dell’ospedale psichiatrico, un luogo che frequentava assieme al marito. E lì, nascosta dalla fitta vegetazione boschiva, avrebbe infilato la testa in due sacchetti di nylon, stretti alla gola con il cordino così da impedire il passaggio dell’aria. Poi si sarebbe avvolta in due sacchi neri delle immondizie aspettando la morte. Quando gli investigatori hanno scoperto il cadavere, il 5 gennaio, Lilly era in posizione fetale.
Gli esiti delle consulenze
Ora però il caso sembrerebbe chiuso, dopo la bozza della relazione firmata dal professore di Medicina legale Fulvio Costantinides e dal medico radiologo Fabio Cavalli e inviata ai consulenti di parte per le loro osservazioni. Nella bozza della relazione di circa 50 pagine gli esperti, incaricati dal sostituto procuratore Maddalena Chergia, mettono nero su bianco i risultati dell’autopsia e degli esami tossicologici (viene esclusa l’assunzione di droga o farmaci) e le deduzioni che lasciano propendere per un gesto che non abbia coinvolto altre persone. I sacchi integri che contenevano il corpo della vittima sono “poco compatibili” con un caso di aggressione e con il trasporto del corpo “in ambiente impervio”, evidenza a cui va aggiunta l’assenza di “qualsivoglia segno ragionevolmente riportabile a violenza per mano altrui”, la mancanza “di lesioni attribuibili a difesa” e di altre ferite che avrebbero potuto impedirle di reagire a un’aggressione.
Una morte per asfissia
Il fatto che i sacchetti non sono stati trovati stretti al collo “non esclude”, a parere dei consulenti, “una morte per una possibile asfissia di questo tipo: se è vero infatti che basta l’inspirio per far aderire il sacchetto agli orifizi del volto cagionando deficit di ossigeno, tale aderenza può essere anche intermittente o addirittura non esserci essendo sufficiente per il soffocamento l’accumulo progressivo di anidride carbonica espirata ed il rapido consumo dell’ossigeno nel poco volume aereo offerto dal sacchetto”.
Il mistero sul periodo tra la scomparsa e la morte
Le conclusioni, a sette mesi dal giallo della morte, – anche se resta da capire cosa è successo dal giorno della scomparsa a quello della morte – sembrano risolutive: il decesso di Liliana Resinovich può farsi risalire “ragionevolmente a circa 2-3 giorni prima” del ritrovamento del corpo che “non presenta evidenti lesioni traumatiche possibili causa o concausa di morte, con assenza di solchi o emorragie al collo, con assenza di lesioni da difesa, con vesti del tutto integre e normoindossate, senza chiara evidenza di azione di terzi”. Resta però il giallo su dove fosse o cosa abbia fatto Liliana tra il 14 dicembre e il 3 gennaio, data a cui i consulenti farebbero risalire la morte.