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Sandro Marenco, il prof social che insegna la vita su tik tok

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Oltre ai programmi, ai compiti, alle interrogazioni e a tutto il repertorio della scuola standard che, salvo colpi di scena, si è rimessa nei binari pre-Covid, c’è un altro modo d’insegnare.

Tecnologico, o meglio social, come indica la strada intrapresa in piena pandemia da Sandro Marenco,

professore di inglese e tedesco – e da due anni di sostegno – in un liceo scientifico di Alessandria: per stare vicino ai suoi ragazzi chiusi in casa, crea una classe virtuale su TikTok che, video dopo video, attira sempre più giovanissimi in vena non solo di ripassare un po’ di inglese, ma soprattutto di confidargli gioie e dolori, complicazioni e sogni.

È il prof social, mente e creatore di una community di amicizia, fiducia e condivisione tra generazioni, che genera grandi numeri (oltre 15 milioni di like, 320mila followers su TikTok e 20mila su Instagram) e altrettante soddisfazioni. Marenco ne parla nel suo libro Dillo al prof (Salani) fresco di stampa, un invito a guardare alla generazione degli studenti 4.0 con occhi diversi. Da tutte le angolazioni, scuola in testa.

Prof, dica la verità. Le manca un po’ la Dad?

No, perché la scuola è fatta di taciti sguardi, di interruzioni (“posso fare questo o quello?”), di bigliettini, di raccomandazioni (“state attenti”). Ha bisogno, per essere viva, di una continua interazione fisica. Senza i ragazzi, la scuola è nulla, un luogo triste e vuoto.

Non salva niente di quell’esperimento?

Salvo tutto, ma in prospettiva: le lezioni online non possono essere la regola didattica ma un’occasione di insegnamento in più per i ragazzi. Tipo, un’ora di ripasso a video prima di una verifica importante. Per il resto, la Dad stride troppo sia con un’età dove predomina la continua scoperta del mondo, sia con il linguaggio dei ragazzi così colorito e immediato.

Però la Rete le ha permesso di fare un test speciale?

Di social sapevo poco, ma gli allievi mi mancavano molto. L’idea di creare un profilo su TikTok è nata per dare loro un supporto con l’inglese – postando video-bignami di 60 secondi l’uno – ma, soprattutto, per continuare a incontrarli. In Rete sono stato me stesso: parlavo della mia vita di tutti i giorni, con gli inevitabili alti e bassi, e man mano i ragazzi si sono sciolti e hanno iniziato a parlare di loro. Al punto che quando mi sono arrivati messaggi più seri, che potevano leggere comunque tutti, ho deciso di aprire una mail per preservare quelle confidenze.

Ha instaurato un dialogo alla pari tra lei e i suoi alunni?

Non esattamente. Da quando insegno ho sempre puntato a essere sincero e autentico con i miei studenti. Fare vedere ai ragazzi le mie debolezze, le mie fragilità, i miei errori non vuole dire, però, che io abbia abdicato al ruolo di insegnante, di formatore, di educatore. Più semplicemente ho tolto alla “professione” quella barriera gerarchica, che riveste i docenti di un’aura di superiorità. Non siamo superiori, siamo solo diversi: io ho un incarico che prevede di portare avanti programmi e altro, i ragazzi hanno il compito di apprendere.

Ma cosa ha imparato da questa esperienza?

Gli studenti sono affascinati dalla schiettezza. Dall’idea di vedere in cattedra una persona esattamente come loro, con lo stesso sentire. È un terreno comune, che li mette a loro agio, li rende liberi e li spinge a confidarsi, a scoprire le loro insicurezze, dubbi, progetti, aspirazioni. Questi adolescenti hanno dentro di sé un mondo meraviglioso, fatto di freschezza e ricchezza emotiva, ma fanno fatica a esprimersi. Sono più chiusi rispetto a quelli di quarant’anni fa. Ma se poi li scopri, ti rendi conto di quanto sono avanti.

Svogliati, pigri, superficiali: spesso gli adulti descrivono così gli studenti…

Chi ne parla così non li conosce. È vero, stanno tanto online, ma è normale, sono nativi digitali. Ognuno ha i propri mezzi per stare con gli amici, io ero sempre in sala giochi per esempio. Ma di valori ne hanno forse qualcuno più di noi. E, poi, basta col dire che hanno vissuto la Dad come culla del dolce fare niente: avranno (forse) copiato, ma hanno retto cinque, sei al giorno davanti al pc. Nonostante che la pandemia avesse tolto tutto (scuola, amicizie, sport), sono stati alle regole e per questo meritano la nostra ammirazione.

Ha detto che i ragazzi devono contribuire a creare la scuola, non solo subirla…

La scuola sono loro, peccato che non vengono mai messi al primo posto nelle scelte. Adesso come adesso, gli studenti non si sentono a casa quando sono in classe, un universo ormai troppo distante da loro nel modo di comunicare, di agire, di muoversi. Ci vuole un restyling, ma nel rinnovamento abbiamo bisogno del loro apporto. Se i ragazzi sono lì, solo a lamentarsi del troppo stress, dei voti, della competizione, allora alimentano quel sistema antiquato che non serve a nessuno ma crea ansia, frustrazione e difficoltà.

Qual è il restyling ideale, almeno per lei?

Architettonico: gli edifici devono essere riportati a misura dei tempi e avere spazi grandi di condivisione d’esperienze, dove mettere insieme tre-quattro classi insieme e fare laboratori di tutti i generi, anche con professori universitari. Didattico, a favore di una scuola più attiva e legata alla realtà circostante, con incontri nelle aziende del territorio. E multimediale: meno lezioni frontali, più spiegazioni trasformate in viaggi virtuali.

Per arrivare dove?

A una scuola fatta anche di esperienze, non solo nozioni. A crescere persone migliori, capaci di affrontare le sfide della vita, e non solo in grado di fare il genitivo sassone o le equazioni. In questa missione, l’atteggiamento degli insegnanti è fondamentale, dal momento che i ragazzi imparano moltissimo dai prof, dai loro comportamenti, in classe e fuori. Sì, certo, la materia va insegnata, ma è solo una parte che ci compete. Altro impegno ridimensioniamo il valore del voto. Spieghiamo bene ai nostri studenti (e ai genitori) che definisce solo la performance di quel momento e su quella materia, e non la persona. Il lavoro che dobbiamo fare noi docenti è capire fino a che punto arriva il ragazzo e incoraggiarlo a dare sempre il meglio di sé, non il peggio.

E i social che spinta innovativa danno?

Gli adulti credono che siano solo una distrazione che fagocita i giovani, ma non è così. Siamo noi grandi che non li conosciamo. Ci siamo fermati su Facebook, come vetrina per farsi i fatti degli altri e viceversa. Invece, agli under20 interessa guardare, e basta. E se TikTok è uno strumento di conoscenza, bene lasciamoli in pace!

Amicizia ma anche autorevolezza

«Sono sempre stato un insegnante friendly, e soprattutto per questo rispettato», chiosa Sandro Marenco. «Nonostante il dialogo a cuore aperto, i ragazzi continuano a darmi del lei, un bel segno dei nuovi tempi. Ci possiamo confrontare su tutto, ma si ha riguardo dei ruoli. Detto ciò, credo che l’ascolto vero, quello che va al di là delle apparenze, dei nostri figli sia la base del patto educativo tra adulti e ragazzi. Va rinnovato tutti i giorni, però. Solo così i teenager si sentono parte di un team e lavorano con più voglia, dedizione e passione. Creare il gruppo è la carta vincente per la costruzione di un percorso di crescita globale.

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Articolo pubblicato sul n. 11 di Starbene in edicola e sulla app dal 12 ottobre 2021

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