[ Leggi dalla fonte originale]
BRUXELLES – «Quale è la vera faccia di Giorgia Meloni?». Nei Palazzi europei, nella Commissione e nel Parlamento, ma anche in alcune delle più importanti cancellerie, inizia a serpeggiare con sospetto questo interrogativo. Dopo il comizio di domenica scorsa a Milano, infatti, i dubbi sull’europeismo di Fratelli d’Italia torna ad accompagnare le analisi sul prossimo voto italiano.
Quel «è finita la pacchia», infatti, desta perplessità. E inevitabilmente, nella sessione plenaria dell’europarlamento iniziata ieri a Strasburgo, questo diventerà uno dei temi prevalenti delle discussioni informali. Nelle riunioni del gruppo Ppe, ad esempio, molti chiederanno spiegazioni ad Antonio Tajani. E tutti nella rappresentanza del Pse si rivolgeranno ai colleghi italiani per capire cosa può cambiare nel nostro Paese.
Il punto è che le rassicurazioni “europeiste” fornite nelle ultime settimane dalla leader di FdI avevano indotto la “struttura” di Bruxelles a sospendere il giudizio. E persino ad accendere, pragmaticamente, una sorta di linea di credito. «Se Giorgia Meloni farà quel che dice e rispetterà le regole europee — è il ragionamento — allora non ci saranno problemi». La scorsa settimana, ad esempio, il commissario austriaco al Bilancio, Johannes Hahn, era stato esplicito a questo proposito: «Ci aspettiamo una cooperazione costruttiva». E tanto per essere più chiari, «se c’è un pò di razionalità, questa cooperazione ci sarà» anche con un governo di centrodestra.
Ma appunto, «se c’è razionalità». Se invece non ci fosse, il discorso cambierebbe rapidamente. E le parole di domenica scorsa hanno fatto accendere una prima lampadina. Un allarme che sta rimettendo in dicussione quella specia di “tregua implicita” siglata dopo la caduta del governo Draghi. Anche perché, come ha dimostrato il vicepresidente della Commissione, l’olandese Frans Timmermans, con l’intervista rilasciata a Repubblica di giovedì scorso, la valutazione istintiva dei vertici Ue non è certa positiva.
E non può essere una caso che ieri, a 24 ore dal comizio “stile Vox” di Meloni, il commissario italiano agli Affari economici, Paolo Gentiloni, abbia sottolineato con energia: «L’efficace attuazione del Recovery fund e del Pnrr è fondamentale per rafforzare la nostra resilienza ed evitare divergenze all’interno dell’Ue». «Il Recovery fund — ha aggiunto in audizione a Strasburgo — rimane un esercizio di apprendimento per le amministrazioni nazionali ed europee».
Le perplessità, dunque, restano una costante. E ogni frase fuori posto rispolvera la paura che le idee di FdI siano state solo edulcorate per vincere la prossima tornata elettorale.Ma si fa largo una ulteriore riflessione. I Popolari hanno sostanzialmente stretto un’allenza con i Conservatori, di cui la Meloni è presidente, a Bruxelles. Il Ppe utilizza il gruppo di destra per limitare i socialisti e mantenere le posizioni di potere nelle strutture dell’Unione. Ma la linea “meloniana” instilla un dubbio: che i Conservatori a guida FdI (il gruppo all’Europarlamento è sostanzialmente egemonizzato dalla delegazione italiana) subiscano un’attrazione fatale dai Tories inglesi. Atlantisti ma antieuropeisti, dentro la Nato ma fuori dall’Ue.
Ieri la presidente di Fratelli d’Italia ha in parte ridimensionato questa tesi: «Siamo da sempre sulla stessa posizione, quella di un’Italia saldamente collocata nella sua dimensione occidentale, europea, nell’Alleanza atlantica e che sappia starci a testa alta, difendendo il proprio interesse nazionale». Insomma FdI deve fare i conti con questo “saliscendi”. Domani il capogruppo dell’Ecr, Raffaele Fitto, interverrà in aula a Strasburgo dopo il discorso sullo “Stato dell’Unione” di Ursula von der Leyen. E sicuramente cercherà di spiegare che la posizione di Giorgia Meloni sull’Europa e sul futuro dell’Ue non cambierà. Nè durante la campagna elettorale, nè dopo la campagna elettorale.
Fitto, ormai assurto a ufficiale di collegamento tra lo stato maggiore meloniano e Bruxelles, si sforza da mesi per distinguere la posizione di FdI da quella della Lega di Matteo Salvini. Ma l’eventuale nuovo governo di centrodestra dovrà ricordarsi che se davvero assumerà una postura incompatibile con le regole europee spacciandola con «la fine della pacchia», allora la linea di credito appena aperta sarà immediatamente chiusa. E basterà lanciare un occhio verso Francoforte per capirne le conseguenze.
Basterà che la Bce alzi un sopracciglio sul nostro debito pubblico e sui nostri titoli di Stato per far schizzare lo spread e rendere insotenibili i nostri conti. E la crisi energetica, insieme al picco inflazionistico, sta rendendo più complicato tenere sotto controllo l’economia del nostro Paese. Forse, allora, hanno ragione alcuni dei consiglieri di Meloni: da qui fino al 25 settembre, è meglio restare in silenzio e parlare il meno possibile. Ogni parola può diventare una trappola.