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Come si diventa Samantha Cristoforetti? Il bilancio di genere racconta la parità ancora lontana nelle università italiane

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Samantha Cristoforetti sarà la nuova comandante della Stazione spaziale internazionale e sarà la prima donna europea con questo incarico. Il 28 settembre, mentre sarà ancora a bordo della Iss, dove si trova in missione da fine aprile e dove resterà fino a ottobre, prenderà le consegne dal suo collega russo Oleg Artemyev. Suo compito sarà quello di guidare e coordinare il lavoro dell’equipaggio a bordo della stazione, equipaggio che sta completando una serie di esperimenti scientifici soprattutto sull’adattamento del corpo umano all’assenza di peso e le conseguenze che questo ha sull’organismo.

Astrosamantha è anche su TikTok, in questi mesi ha spiegato di tutto: da come la stazione è protetta dai meteoriti a come si gestiscono le mestruazioni nello spazio (risposta: la maggior parte delle astronaute prendono una pillola ormonale per bloccarle durante le missioni). Lasciamo da parte la folta schiera – di donne e uomini – che hanno come unica preoccupazione il fatto che stia lì a giocare nello spazio senza preoccuparsi dei suoi figli rimasti a terra, visto che ormai è chiaro che per loro non è un’opzione possibile che se ne occupi il padre, figuriamoci quella di affidarle per alcuni mesi a una baby sitter. Guardiamo, andando indietro, il suo curriculum, quello che con molta molta determinazione, tigna vera, l’ha portata dov’è. Nel 2001 la sua prima laurea è in ingegneria meccanica all’università di Monaco di Baviera. Non credo che nel 2001 si parlasse molto di gender gap nelle materie Stem, oggi lo si fa molto, lo si fa a ragione. Perché ci sono le Cristoforetti, e non solo lei, a dare un nome e una faccia alle aspirazioni delle bambine, certo. Ma anche perché proprio le materie Stem, in alcuni casi, riservano sorprese.

L’Università degli studi di Pisa – oltre 50mila tra studenti, dottorandi, specializzandi, 1.550 docenti e 1.621 dipendenti tecnici e amministrativi – ha appena pubblicato il Bilancio di genere 2021, che contiene una analisi approfondita dei 20 dipartimenti sul rapporto genere/carriera, oltre che a una corposa indagine sull’impatto dello smart working. L’analisi, riporta il documento, spiega che la parità di genere è ancora lontana. Lo è nella rappresentazione di genere nelle carriere universitarie, che è uno degli indici per capire quanto la scelta di un percorso di studi possa poi portare a un lavoro per una donna, “e questo sia per quanto riguarda il personale docente che quello tecnico-amministrativo. A conferma che certi pregiudizi sono talmente radicati che non basta un semplice aggiornamento della governance per estirparli”.

Gli ultimi dati sull’ateneo dicono che a Pisa le studentesse sono la maggioranza (oltre il 60%) e che hanno performance migliori sia nei tempi della laurea che nei voti. Diventano però minoranza nei corsi di dottorato e già un anno dopo la laurea guadagnano meno degli uomini, fino a un gender pay gap del 21% dopo cinque anni.

Ma veniamo alla classifica dei dipartimenti con le migliori prospettive di carriera, calcolata con l’indicatore noto come Glass ceiling index, quell’indice sul soffitto di cristallo che dice quante donne e quanti uomini ci sono, in ogni fascia, in ciascun dipartimento e che ha l’obiettivo di stimare la probabilità relativa delle donne, rispetto agli uomini, di raggiungere le posizioni apicali della carriera accademica.

GCI = (N donne /(N donne +N uomini ))?(N ordinarie +N ordinari )/N ordinarie )

Quindi: un valore di GCI=1 segnala l’assenza di effetto Glass Ceiling, che vuol dire che non c’è differenza tra i due generi in termini di prospettive di carriera e di raggiungimento di ruoli apicali.

“Dai dati emerge che il valore di GCI è diminuito a Pisa dal 2017 al 2021, ma il dato 2021 è comunque più alto di quello nazionale, che a sua volta è ben distante dall’1. Il GCI medio alla fine del 2021 è 1,66, sintetizzando ancora un generale sbilanciamento dei valori verso la criticità (ovvero superiori a 1), e risultando addirittura peggiorato rispetto al 2020. Se assumiamo come GCI sostanzialmente unitario (ovvero quello che denota pari opportunità di carriera per genere) ogni valore nel range che va da 0,9 a 1,1, e come GCI moderatamente sbilanciato ogni altro valore nel range da 0,7 a 1,3, osserviamo che al 2021 erano tre i Dipartimenti che – secondo il GCI – offrono pari opportunità di carriera (quello di Scienze Politiche, quello di Patologia chirurgica, medica, molecolare e dell’area critica, e quello di Chimica), mentre solo uno (Ingegneria dell’Informazione) offre alle donne una prospettiva moderatamente maggiore, e salgono a quattro quelli che la offrono piuttosto agli uomini (Biologia, Ingegneria civile e delle costruzioni, Economia e Management, e Farmacia); dopo questi, tutti gli altridodici Dipartimenti offrono agli uomini prospettive di carriera assai maggiori, con due Dipartimenti (Ricerca Traslazionale e Informatica) con GCI sopra 2, e uno (Informatica) addirittura superiore a 6”.

Quindi: al primo posto la facoltà di Ingegneria dell’informazione. A Scienze Politiche, Patologia e Chimica c’è parità fra i due generi mentre a Biologia, Ingegneria delle costruzioni, Economia e Management e Farmacia prevalgono moderatamente le chance di carriera degli uomini. Nei restanti dodici dipartimenti prevalenza netta per gli uomini.

Numeri, certo, ma cosa dicono? Che conta molto la percentuale di donne ordinarie di prima fascia rispetto a quelle dell’intero corpo docente e che l’abbandono della carriera accademica si sente molto tra la seconda e la prima fascia. Spiega il documento redatto da un gruppo di lavoro presieduto dalla professoressa Nadia Pisanti e composto dai professori Arturo Marzano, Mauro Sylos Labini, dalla professoressa Lucia Pallottino, dal signor Giovanni Antonio Pasqualini per la componente studentesca, dal dottor Francesco Giorgelli e le dottoresse Alessandra La Spina e Francesca Paola Magagnini per il personale tecnico a amministrativo, e dalla dottoressa Francesca Pecori, borsista del CUG.

“Nel caso della seconda fascia, i Dipartimenti con un equilibrio di genere sono sette: Chimica, Civiltà e forme del sapere, Giurisprudenza, Informatica, Agraria, Ricerca Traslazionale, e Veterinaria. Una percentuale relativamente alta di donne in seconda fascia può, da un lato, rappresentare in prospettiva un buon bacino per la promozione a prima fascia e, dall’altro, laddove abbinata ad una scarsa presenza di ordinarie, l’affossamento del genere femminile a fronte di una resistenza al loro passaggio in prima fascia. Nei restanti tredici Dipartimenti si registra una netta prevalenza maschile, con quattro Dipartimenti che hanno meno del 20% di professoresse in seconda fascia: Biologia, Matematica, e i due Dipartimenti di Ingegneria. In questa ottica, appare allarmante la totale assenza di donne ricercatrici a tempo determinato in un Dipartimento (ingegneria dell’Informazione), e la loro bassa rappresentazione – con meno del 40% – nella metà dei Dipartimenti”.

Non sorprende, a questo punto, che quello che vediamo oggi sia il frutto di quanto è avvenuto per decenni: la carica di docente emerito/a , che viene attribuita agli ordinari che vanno in pensione dopo almeno 20 anni di servizio, non è mai stata assegnata a una donna dal 2008 a oggi (ma dal 2017 al 2020 nessun docente è diventato emerito), a eccezione del 2011 e del 2021, quando comunque su 9 emeriti c’è stata solo una donna.

È qui la festa?

Cinque anni di #MeToo, sembra un secolo fa. Era il 5 ottobre del 2017 quando un’inchiesta del New York Times citava per la prima volta le violenze e le molestie a cui erano state sottoposte alcune attrici dal produttore Harvey Weinstein. Qualche giorno dopo il New Yorker, con Ronan Farrow, ci metteva il carico, facendo i nomi delle attrici stesse e raccontando con molti particolari situazioni, luoghi, parole, assalti. Il 15 ottobre l’attrice Alyssa Milano twittava: “Se tutte le donne molestate sessualmente o violentate scrivessero ‘Me too’ come status, potremmo dare alle persone un senso della vastità del problema”. Per amor di verità e di cronologia dell’attivismo molti anni prima l’espressione era stata lanciata dall’attivista afroamericana Tarana Burke, ma ci voleva la potenza di propagazione che in quel momento aveva Twitter per far diventare quell’hashtag un movimento globale.

Di cui oggi è difficile fare bilanci, al di là delle condanne ottenute nei confronti dei molestatori: il #MeToo ci ha resi migliori? Più consapevoli?

Su Repubblica ne parlano Natalia Aspesi e Chiara Valerio (ed è la copertina di dLui in edicola sabato).

Chiara Valerio ne fa una questione, mi sembra, di speranza e prospettiva che va più in là di un lustro: il movimento, dice, “ci ha rivelato perché siamo un Occidente tanto privo di immaginazione. Sappiamo che essere uomo o donna, in un mondo così, inibisce sorpresa, rivoluzione, rende convenzionali e prevedibili, si subisce o agisce violenza, non si può fare quasi altro, chi sfugge con grande fatica comunque resta in mezzo in qualcosa che non è (non è, non è) un ordine naturale, ma culturale. E ciò è insopportabile. Abbiamo cambiato molti ordini naturali, possiamo cambiare pure quelli culturali. Il #MeToo libera tutti, ha chiarito che l’avventura non è solo delle bambine marinaio, ma pure di quelle fatine azzurre e rosa e d’oro, o di bambine e bambini che si sentono gufi. Denunciare e combattere la violenza è sempre una forma di immaginazione”.

Aspesi ne vede invece il fallimento peggiore sul tema dei femminicidi, che è la forma più estrema di delirio di possesso di un uomo su una donna. Ma dice anche qualcosa su cui servirebbe una riflessione ampia e senza fingersi tutti alice nel paese delle meraviglie: se è vero che dal #MeToo sono stati travolti – con condanne e perdita del lavoro – uomini di successo, “i capireparto, e gli chef, e i manager, e i questurini, e i padroni di casa, e i direttori, e i colonnelli, e i vescovi, e gli a.d., e il capo commesso, e il professore e tutti quei maschi al comando anche nella confezione delle verdure fresche, non tutti votati alla castità sul lavoro, in quanti sono stati denunciati da chi di quel magro lavoro sopravvive e deve tacere? E così, villanamente ho pensato: aderire al Me Too è il gesto di una classe privilegiata, riservato alle donne che ce l’hanno fatta e ricordano un dolore antico di cui oggi possono vendicarsi e ottenere giustizia”.

Se le donne non votano

di Alessia Ripani

Da mesi gruppi di sindache e amministratici locali si incontrano per condividere la loro visione della politica e la loro esperienza. La fatica, si potrebbe dire ascoltandole, di governare la cosa pubblica in un contesto maschile e maschilista, stando ai loro racconti. È da qui che è nata l’esigenza di coinvolgere quante più candidate possibile, affinché la voce delle donne il prossimo 25 settembre ci sia e sia in grado di farsi ascoltare. Ma un invito è rivolto soprattutto alle elettrici, per evitare ugualmente che “la scoperta delle donne in politica venga usata per rinvigorire una propaganda senza mordente e senza anima”, in una campagna elettorale dove il dato sull’astensione viene stimato intorno al 40%.

Perché le donne non votano? Avviene perché le donne sono lontane dalla politica o perché la politica è lontana dalle donne? Parte dalla riflessione di Linda Laura Sabbadini su Repubblica del 13 agosto l’idea di un incontro online dal titolo “Se le donne non votano”, in diretta streaming lunedì 19 settembre a partire dalle 18, organizzato dal Coordinamento “Donne di Governo, la novità storica”. Il gruppo di lavoro è impegnato da tempo nella formazione per donne con passione politica e desiderio di dare un contributo alla vita delle comunità. Nei mesi scorsi ha organizzato diversi incontri dal titolo “La prima volta che mi hanno votato” cui hanno partecipato, portando la loro idea di governo della città, sindache, assessore e a Milano c’erano anche la ministra Mara Carfagna e la senatrice presidente della commissione femminicidi Valeria Valente.  

Spiegano le organizzatrici: se nel 1946 le cause dell’astensionismo femminile venivano individuate nell’autorità maschile all’interno della vita famigliare, ora le motivazioni vanno ricercate “nella politica rappresentativa e nel racconto che essa mette in campo per incontrare le donne che vanno sempre meno a votare, il 5% in meno degli uomini”. 

In pratica: “Troppe parole, pochi fatti”, come sintetizza Sabbadini che sarà tra le protagoniste dell’evento streaming di lunedì prossimo, ferma nel dire che non dovrebbe sorprendere il disincanto delle elettrici visti i risultati delle leggi che potevano essere di supporto e non sono state applicate, vedi la legge sulla istituzione dei nidi pubblici del 1971 e a quella sull’assistenza del 2000. 

L’appuntamento ha come punto di partenza una lettera inviata alle candidate, alle segretarie di partito, alle portavoce, alle coordinatrici, scritta dal Coordinamento, in cui ci si augura – tra l’altro – che il valore delle donne “non sia ridotto a essere propaganda mediatica a sostegno della leadership maschile”. “Nella crisi generale e globale in cui si innestano le prossime elezioni italiane – si legge nel documento – pensiamo che il problema, per noi donne, non sia più tanto ricoprire posti di potere, ma sia mostrare come si possano trasformare questi posti, come sia possibile traghettarli fuori dalla tradizione patriarcale”.  

IL TESTO DELLA LETTERA  

Annarosa Buttarelli, ideatrice del progetto, filosofa direttrice scientifica della scuola di alta formazione Donne di governo, dialogherà sul tema dell’astensionismo femminile e del ritorno alla passione politica con la stessa Sabbadini, direttora del Dipartimento per lo sviluppo di metodi e tecnologie dell’Istat, autrice dell’articolo in cui spiegava le ragioni di quel 5% che corrisponde al gap delle urne tra uomini e donne; Francesca Zajczyk e la giornalista Assunta Sarlo, la prima professoressa ordinaria di Sociologia urbana alla Milano–Bicocca, autrici del libro “Dove batte il cuore delle donne?”; Claudia Durastanti, scrittrice e traduttrice; Sandra Morano, ginecologa e docente all’Università di Genova, responsabile della Formazione femminile del sindacato dei dirigenti medici Anaao Assomed, autrice de la “Sanità che vogliamo”, in cui ha raccontato il punto di vista, le proposte e le difficoltà delle donne impiegate nella Sanità; Giovanna Piaia, già assessora al Comune di Ravenna. 

È possibile seguire l’evento sulla pagina facebook della Fondazione  https://www.facebook.com/ScuolaAltaFormazioneDonneDiGoverno 

e sul canale Youtube https://www.youtube.com/channel/UC3frJjYCExX3A0OAQmJtv4Q 

Per segnalare la propria presenza ed avere la possibilità di intervenire clicca qui, riceverai il link zoom.  https://us7.list-manage.com/survey?u=ce712a4d13d6a5d73a4989104&id=495609a21a&attribution=false

Me lo segno

Antonella Di Bartolo è preside dell’istituto comprensivo Pertini nel quartiere Sperone di Palermo, uno di quelli che sui giornali chiamiamo “di frontiera” e che conta 1.200 alunni. Quando è arrivata, dieci anni fa, la dispersione scolastica sfiorava il 30%: oggi si ferma intorno all’1%. Su Repubblica Palermo Claudia Brunetto raccoglie la sua testimonianza e quella delle altre presidi che alla Noce, allo Zen, a Borgo Nuovo, a Villagrazia, alla Magione, a Ballarò, a Cruillas non mollano. Combattono la dispersione scolastica, ancor di più la convinzione di tante bambine, ragazze, bambini, ragazzi, che tutto sia già scritto, già deciso. Come dice Daniela Lo Verde, anche lei da dieci anni allo Zen: “Questa scuola è la mia famiglia. Chiedo ai miei insegnanti di lavorare con la testa, ma anche con il cuore, come se si trattasse dei loro figli”.

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