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Università, i dottori di ricerca: “Noi spinti dalla passione: quello che ci aspetta è un futuro da precari”

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Scelgono il dottorato di ricerca per passione. Ma vorrebbero una carriera ben diversa, riconosciuta a livello accademico come negli altri Paesi. Hanno famiglie alle spalle che li aiutano a mantenersi, perché sono pagati per fare ricerca con una borsa di studio. Trovano lavoro, ma perlopiù precario: solo poco meno di un quarto di loro è assunto con un contratto a tempo indeterminato. “La maggior parte dei dottori di ricerca è inquadrata in forme a tempo determinato, parasubordinate, atipiche o intermittenti” osserva Luca Dell’Atti, segretario dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia (Adi).

Dell’Atti fa un’analisi sui dati AlmaLaurea usciti di recente e che restituiscono la fotografia del dottorato di ricerca in Italia. I giovani che scelgono questa strada dopo la laurea erano circa 8000 nel 2021. Destinati a raddoppiare con i fondi del Pnrr che finanza con 300 milioni di euro 7.500 borse per l’anno accademico 2022/2023: 5.000 borse per dottorati innovativi che rispondono ai fabbisogni delle imprese e promuovono l’assunzione dei ricercatori da parte di queste ultime; 1.200 per dottorati di ricerca rientranti, comunque, negli ambiti di interesse del Pnrr; 1.000 per dottorati per la pubblica amministrazione; 200 per il patrimonio culturale e 100 per dottorati in programmi dedicati alle transizioni digitali e ambientali.

Insomma, una vera e propria rivoluzione in questo segmento di alta formazione che però si trascina non pochi problemi e il rischio di sfornare sempre più cervelli precari. E’ l’Adi a raccontare questo cambiamento e a mettere in luce le criticità del percorso accademico a partire dalla ricerca AlmaLaurea.

Innanzitutto – spiega il segretario – ci preme sottolineare come il dottorato, pur rappresentando un momento di alta formazione orientata alla ricerca, sia anche un lavoro. “Nei tre anni di durata del dottorato – spiega – i dottorandi contribuiscono alle attività di ricerca del proprio dipartimento, scrivono e pubblicano articoli, tengono lezioni, esercitazioni e tutorati, prendono parte a commissioni d’esame e si impegnano in attività di divulgazione e di trasferimento tecnologico. Essenzialmente, il dottorato è un momento di formazione-lavoro. Una peculiarità riconosciuta in tutto il resto d’Europa attraverso un inquadramento da dipendente dell’università, con un contratto subordinato, e non, come nel nostro Paese, come uno studente beneficiario – occasionalmente – di una borsa di studio”.

Il dottorato: scelta elitaria

Non a caso il dottorato di ricerca rimane una scelta per censo, elitaria:  AlmaLaurea racconta come oltre il 30% dei dottori di ricerca proviene da contesti socialmente elevati, contro il 25% dei laureati di secondo livello, un dato che sale al 38,7% nell’area disciplinare delle scienze economiche, giuridiche e sociali. “Vere una famiglia benestante alle spalle è necessario per avere quel necessario complemento al magro importo della borsa di dottorato, nonché per poter beneficiare di una rete di protezione nei periodi di disoccupazione tra un assegno di ricerca e l’altro” spiega Luca Dell’Atti.

Dopo il dottorato il lavoro è precario

Dopo il dottorato il lavoro si trova. Secondo i dati AlmaLaurea il 90,9% dei dottori di ricerca afferma di avere un’occupazione a un anno dal conseguimento del titolo. Ma di che tipo? Se si va a guardare i contratti, insieste l’Adi, la situazione non è così rosea. L’8,5% dei dottori di ricerca svolge un’attività autonoma, il 23,8% è assunto con un contratto a tempo indeterminato, il 33,8% ha preso un assegno di ricerca, l’8,4% si sostiene mediante una borsa di studio, il 20,4% dichiara di essere assunto con un contratto non standard, comunque a tempo determinato. “Ciò che emerge da questi dati è sì un tasso di occupazione sostanziale, ma solo meno di un quarto dei rispondenti dichiara un contratto a tempo indeterminato, mentre la maggior parte dei dottori di ricerca è inquadrata in forme a tempo determinato, parasubordinate, atipiche o intermittenti”, spiega il segretario Adi. “Su tutte, predomina l’assegno di ricerca, fattispecie introdotta dalla legge Gelmini e divenuta la forma-tipo di impiego post-dottorale in un sistema universitario sottofinanziato e anemico, con cui sono inquadrate, secondo i dati correnti, più di quindicimila persone”.

Secondo i dati raccolti da una indagine Adi, il 27% dei percettori di un primo assegno di ricerca devono affrontare un periodo di disoccupazione prima dell’assegno successivo, una percentuale che sale al 33% al sud; questi periodi di disoccupazione nel 24% dei casi possono superare l’anno. Inoltre, la maggior parte degli assegnisti di ricerca è poi espulsa dal sistema universitario dopo uno o più assegni, tanto che meno del 10% di chi abbia preso un primo assegno di ricerca viene infine stabilizzato con l’unica forma contrattuale a tempo indeterminato del sistema universitario pubblico, quella del professore associato. Anche in quetso caso, il “sostegno della famiglia d’origine diventa quindi indispensabile per poter perseguire una carriera segnata da un tale grado di instabilità lavorativa, economica, anche geografica: la precarietà dell’assegno non è che lo specchio della precarietà diffusa del sistema-Italia”.

Quanto guadagna un dottore di ricerca?

A un anno dal diploma di dottorato, la retribuzione mensile media netta è di 1.784 euro. Ma con una fobice importante tra le retribuzioni dei dottori di ricerca in Scienze della vita (che dichiarano 1.966 euro di retribuzione mensile netta) e quelli in Scienze umane che non dichiarano più di 1.482 euro netti. “Essi, assieme ai dottori di ricerca in scienze economiche, giuridiche e sociali – osssera l’Adi – sono soggetti più degli altri a una disparata congerie di collaborazioni volontarie non retribuite”.

Più di otto dottori di ricerca su dieci dichiarano di aver scelto questo percorso per accrescere la propria formazione culturale e scientifica. “È una passione che anima tutte e tutti noi – continua Luca Dell’Atti – che ci motiva e ci sostiene nel percorso dottorale e nel passare da un lavoro all’altro dopo il dottorato. È il modo in cui possiamo portare il nostro contributo al nostro Paese. Vogliamo però che questo nostro lavoro sia pienamente riconosciuto come tale, che sia retribuito dignitosamente, che sia caratterizzato da percorsi di carriera lineari, non precari, stabili”.

“Aumentano le borse con il Pnrr, ma poi?”

Il Pnrr aumenta le borse di studio, soprattutto quelle legate a uno sbocco nel mondo industriale e del tarsferimento tecnologico. Ma, è la critica dell’Adi, “propone degli interventi estemporanei e disorganici”. Raddoppiando quasi il numero di dottorandi all’anno “resta da chiedersi cosa faranno tutti quei dottorandi, stante la scarsa capacità di assorbimento delle università, del pubblico impiego e del tessuto imprenditoriale italiano”.

Luca Dell’Atti non ha dubbi: “È necessario invece rifinanziare stabilmente il sistema universitario tutto attraverso un chiaro indirizzo di politica economica in parte corrente, sostenendo così un paradigma di crescita diverso rispetto a quello su cui sembra essersi instradato il nostro Paese: un paradigma la cui chiave è quella del benessere diffuso, dell’innovazione tecnologica, dello sviluppo sociale e culturale”.

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