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Bracciante morì di caldo e fatica nei campi in Salento, chiesti 22 anni di carcere: “Fu schiavitù moderna, uno schiaffo alla civiltà”

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LECCE – Schiavitù moderna, uno schiaffo alla civiltà, una mortificazione della persona umana. Così Procura e parti civili hanno definito la morte del bracciante sudanese Mohamed Abdullah. Aveva 47 anni ed era arrivato in Italia lasciando moglie e figli nel suo paese d’origine. Come tanti suoi connazionali si era trasferito in una delle tendopoli allestite per la stagione estiva alle porte di Nardò e ogni giorno raccoglieva pomodori “per dieci/dodici ore al giorno per un compenso giornaliero di 50 euro sproporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto”. Morì sotto il sole cocente che sfiorava i 40 gradi, il 20 luglio del 2015.

A conclusione della sua requisitoria, la pm Francesca Miglietta ha invocato 9 anni di reclusione per riduzione in schiavitù e 2 anni e 6 mesi per omicidio colposo nei confronti di Giuseppe Mariano, 77 anni, detto “Pippi”, di Porto Cesareo, titolare di fatto dell’azienda e a Mohamed Elsalih, 40enne, di origini sudanesi, nel ruolo di mediatore per gli arrivi in Salento dei braccianti. Inizialmente i due imputati erano accusati di caporalato (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) e il processo era iniziato davanti alla giudice monocratica che aveva sollevato dubbi sulla competenza chiedendo di valutare altre accuse. E l’allora pm Paola Guglielmi formalizzò un nuovo capo d’imputazione allargando lo spettro investigativo e configurando l’attuale spettro investigativo a “numerosi cittadini extracomunitari di nazionalità prevalentemente sudanese, in stato di soggezione continuativa, condizione analoga alla schiavitù, costringendoli a prestazioni lavorative nei campi in condizioni di assoluto sfruttamento”.

Gli inquirenti hanno ricostruito l’intera filiera dei pomodori che dalle campagne salentine finivano alle multinazionali delle conserve e, sotto forma di pelati o salsa, sulle tavole degli italiani. Un sacrificio dispendioso in termini di energie fisiche. Quel giorno il 47enne era impegnato nella raccolta e nel carico di pomodori all’interno di apposite vaschette. Senza mai fermarsi. Un lavoro meccanico e sfiancante. Fino a quando Mohammed non avvertì un malore che non gli lasciò scampo. Le accuse all’imprenditore sono state messe nero su bianco dal pm quando scriveva che “non avrebbe effettuato la necessaria visita medica, da parte di un medico competente che potesse accertare la capacità del lavoratore in rapporto alla propria salute e sicurezza ed in relazione al proprio pregresso stato di salute”. Negligenze e imperizie, insomma. Approfondimenti su un doppio binario andati avanti per mesi: i carabinieri si sono soffermati su chi abbia gestito il business; gli uomini dell’ispettorato del Lavoro, invece, su eventuali irregolarità e sulle normative sicurezza. Nel corso delle indagini ono state sentite decine e decine di lavoratori italiani e stranieri a sommarie informazioni. Gli incroci di testimonianze raccolte dagli investigatori hanno fatto convergere l’attenzione sui ruoli ricoperti dal cittadino senegalese e dal titolare dell’azienda per cui lavorava Mohamed.

E sono emerse carenze su più fronti: assenza di un presidio medico quali la cassetta di primo intervento; guanti e scarpe a protezione; copricapo per difendersi dalle insolazioni; erogatori di acqua potabile. Ad ottobre del 2016, una targa è stata apposta nei pressi della Masseria Boncuri in ricordo del bracciante, luogo simbolo delle battaglie per i diritti sindacali e per la dignità sul lavoro dei braccianti stranieri impiegati nella raccolta dei prodotti ortofrutticoli nei campi del Salento. Nella giornata di giovedì 13 ottobre, subito dopo la requisitoria, sono iniziate le arringhe degli avvocati di parte civile: la moglie e della figlia della vittima (assistite dall’avvocata Cinzia Vaglio che hanno avanzato un risarcimento di 1 milione e mezzo di euro; la Cgil con l’avvocata Viola Messa; la Cidu (Centro Internazionale dei Diritti Umani) rappresentata dal presidente Cosimo Castrignanò e difesa dall’avvocato Paolo Antonio D’Amico; la Mutti e la Conserva Italia, (le due aziende cui arrivavano i pomodori raccolti dai lavoratori stagionali) assistite rispettivamente dal professore Vincenzo Muscatiello e dal’avvocata Anna Grazia Maraschio. A difendere gli imputati, gli avvocati Ivana Quarta (sostituita in aula dal collega Giuseppe Sessa) e Antonio Romano. La sentenza della Corte d’assise (presidente Pietro Baffa) è attesa per il 10 novembre.

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