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Come imparare a vivere con leggerezza, chiave della felicità

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La prima vertebra della nostra colonna si chiama Atlante, poiché sostiene il cranio: deve il suo nome al titano che ha osato sfidare Zeus e, per punizione, viene condannato a reggere sulle proprie spalle la volta celeste. In effetti, si tratta di una delle zone più colpite da ansia e stress. E chi di noi, soprattutto in questo periodo, non si è mai sentito come Atlante, con il gravoso compito di reggere il peso del mondo?

La pandemia, la paura di ammalarsi, il senso di precarietà, le difficoltà relazionali create dal lungo confinamento: i carichi degli ultimi due anni sono stati parecchi. E allora, perché non chiedere consiglio a un’esperta di leggerezza? Laura Campanello, analista a orientamento filosofico e life coach, da anni studia un antidoto alla pesantezza della vita. E qui ci racconta come imparare a usarlo.

Come si impara ad alleggerirsi?

«Prendere la vita con leggerezza non significa superficialità, diceva Italo Calvino, ma planare sulle cose dall’alto, levandosi i macigni dal cuore. Sembra più facile a dirsi che a farsi, però il primo passo per rendere l’esistenza più lieve è diventare consapevoli del tempo che stiamo vivendo. Partiamo da qui: il Covid-19 ci ha messo di fronte all’urgenza di renderci responsabili, come mai prima d’ora, della nostra felicità, di quello che è davvero importante. Ci ha permesso di capire cosa è effimero, gravoso ma non necessario nella nostra vita. È stato un acceleratore di consapevolezza: è rimasto ciò che conta davvero».

La pandemia quindi è un’occasione per ri-immaginare un futuro più lieve?

«Sì, assolutamente. ll primo passo per essere felici è diventare coscienti di cosa non è più necessario. Alleggerirsi è un’azione tutt’altro che banale. Non basta dirlo: occorre fare uno sforzo di consapevolezza. Sembra strano ma gli esseri umani si affezionano ai propri fardelli, rimangono invischiati nel loro dolore, perché è un milieu che riconoscono, in cui si muovono a loro agio».

Quindi è l’abitudine al dolore che ci impedisce di aprirci ai cambiamenti?

«Sì, la consuetudine alla sofferenza è un habitus mentale molto potente: è come una catena che ci ancora, ci radica, ci fa sentire a casa. E più passa il tempo, più crediamo dia un senso alle nostre giornate. Ci sembra che sia questa “armatura” che ci siamo costruiti a tenerci in piedi e, se la togliessimo, crolleremmo miseramente. Così investiamo tempo ed energia a lucidare e rinforzare la gabbia che ci impedisce di essere felici. E l’effetto di questa fatica è l’ansia, la depressione, gli attacchi di panico e tutti i disturbi comportamentali che affliggono l’Occidente.

Occorre modificare il punto di vista e lo sguardo che abbiamo sul mondo: la filosofia in questo può davvero darci una mano a cambiare prospettiva. Imparare a vivere filosoficamente ci aiuta a guardare la nostra esistenza dall’alto e nella sua totalità, ci insegna a volare più leggeri, a sollevare la testa per cercare e poi trovare una nuova rotta anziché intestardirsi sulla strada della lamentazione».

Lamentarsi non è un modo per chiedere aiuto?

«No, è più spesso un comportamento atto a mantenere lo status quo. Il dolore e la sofferenza hanno a che vedere con il modo in cui ci raccontiamo le cose. Non siamo in grado di cambiare gli eventi che ci accadono, ma possiamo modificare lo sguardo su di essi. Proviamo per esempio a riflettere sulle parole che utilizziamo per raccontare la nostra quotidianità. “Oggi sono distrutta”. “Al lavoro è un incubo” e via dicendo. Usiamo formule iperboliche per caricare di enfasi quello che ci succede, pensando così di ottenere più ascolto. Ma in questo modo non facciamo che appesantire la nostra vita e quella degli altri.

Cominciamo con il provare a utilizzare un linguaggio nuovo: non urlare uno stato d’animo significa imparare a osservarlo e quindi a contenerlo, modulandone i toni più alti che ci impediscono di rielaborarlo. Un altro buon motivo per modificare la narrazione che facciamo di noi stessi è il contagio emotivo: se io alzo la voce, tu strilli. E in questo strepito generalizzato, non ci si ascolta più, non si riesce a comunicare gli uni con gli altri. Così, al carico di una routine percepita già come gravosa, ci aggiungiamo quello della solitudine. In questo modo, l’altro diventa un antagonista. Il giardino più verde a cui non riusciamo mai ad accedere perché ci sentiamo vittime di un destino avverso, mentre gli altri sono sempre più fortunati, più bravi, più resilienti. In questo modo diventiamo i maggiori sabotatori di noi stessi, gli artefici della nostra sfortuna».

Intende dire che siamo i primi responsabili della nostra infelicità?

«In parte è così. Quando le cose non vanno, gli esseri umani tendono a diventare conservativi anziché lasciarsi trasformare da una situazione che impone una sosta, una pausa di riflessione e permette di imboccare una strada che rende più agili e creativi, abbandonando il vicolo cieco in cui si erano infilati. La leggerezza inizia con l’imparare ad assegnare il giusto peso a ciò che ci portiamo addosso. Prendersi la responsabilità della propria vita significa farsi carico del dolore, accoglierlo, rielaborarlo e trasformarlo in una risorsa. Come si fa? Dandogli un senso. Iniziando a realizzare che la vita è un equilibrio tra vuoti e pieni, tra abitudine e cambiamento e che solo accettando questo movimento incessante possiamo ripartire. 

Il filosofo Jacques Lacan sosteneva che “il vuoto va costeggiato”. Il troppo pieno pesa, riempie e satura eccessivamente. Siamo abituati a non avere intervalli, riempiamo il tempo con interazioni continue (la nostra dipendenza dai device digitali ne è la prima prova): siamo terrorizzati dal vuoto, dal silenzio, dalla solitudine. Ma è proprio in quel vuoto che si impara a guardare il dolore e a “farsene qualcosa”: si capisce che si può sopravvivere, voltare pagina, aprire un nuovo capitolo. Perché è nell’assenza (di parola, di moto, di contenuti) che si ricrea l’impulso creativo, il movimento e il coraggio del cambiamento».

Come si procede sulla via del cambiamento?

«Si tratta di intravedere l’armonia di una forma nella materia grezza. Immaginiamo di dover scolpire la nostra statua, come faceva Michelangelo davanti al blocco di marmo. Come ci vediamo? Come visualizziamo la scultura, viva, plastica e pulsante, della nostra vita in contrapposizione alla grevità del presente? Se riusciamo ad affinare lo sguardo, possiamo accedere a quello che la filosofa Hannah Arendt chiama la “virtù del cominciamento”: la possibilità continua, incessante, salvifica di concederci una nuova forma, di regalarci un nuovo inizio, di immaginarci ai blocchi di partenza. Ali rinnovate per volare altrove».

Un esercizio anti-zavorra per essere più leggeri

Prendi carta, penna e disegna un sacco nero, che rappresenta metaforicamente ciò che ti porti addosso. Che cosa ti pesa nella vita e della vita? Cosa puoi lasciare a terra? Scrivi l’elenco accuratamente, facendo attenzione a separare quello che è tuo da ciò che puoi restituire al mittente, come le aspettative e le richieste eccessive del mondo esterno.

Il secondo esercizio riguarda la presa in carico delle tue parti vulnerabili. Cerca di individuare i tuoi punti deboli: cosa ti preoccupa e ti fa sentire “non protetta”? In quali situazioni avverti di essere più esposta?
Ora, pensa a una tua fragilità che hai riconosciuto in altri e a come l’hai gestita. Prova a visualizzare te stessa nella medesima situazione e osservati con gentilezza e compassione.

Il terzo esercizio è utile per testare la tua resilienza: sempre con carta e penna, scrivi cosa ti ha aiutato nei momenti di maggiore difficoltà, le risorse che hai saputo sfruttare, quali persone sono i tuoi punti di riferimento importanti e per chi lo sei tu.

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