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“In Sudan abbiamo lasciato il cuore e l’intenzione è quella di tornare tra i primi, appena sarà possibile”. È La promessa di Stefano Rebora, presidente di Music for peace, la onlus genovese rimpatriata dal Sudan con uno dei due aerei militari organizzati dal governo. “Abbiamo lasciato una situazione devastante- racconta Rebora, nel corso di una conferenza stampa organizzata nella sede dell’associazione, a due passi dal porto- siamo arrivati trovando un popolo che accoglieva, abbiamo lasciato un popolo che sarà da accogliere. In due giorni è cambiato tutto”. Music for peace era in Sudan per distribuire aiuti alimentari alla popolazione civile e medicinali e attrezzature mediche agli ospedali, cuore della missione dell’associazione attiva da oltre trent’anni e che nel paese africano è presente già da quattro. “Mentre prima erano missioni mordi e fuggi- racconta Rebora- quest’anno eravamo più strutturati, avevamo preso in carico circa mille famiglie attraverso anche un finanziamento dell’agenzia italiana cooperazione e sviluppo”.
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Da qui il desiderio di tornare appena le condizioni politiche lo concederanno. “La nostra missione continua da qui, coordinando da Genova il nostro staff locale- assicura il presidente della onlus- a Khartoum abbiamo ancora ancora uno stock di magazzino, sempre che non lo abbiano saccheggiato, con 500.000 euro di medicinali, attrezzature ospedaliere per disabili e 1.300 pacchi alimentari che avremmo dovuto distribuire in questi giorni. Finora non siamo ancora riusciti a tornare nel magazzino per questioni di sicurezza. Ma prima di andar via abbiamo messo tutto in ordine e chiuso la porta a chiave, pronti a tornare”.
Rebora ci tiene a sottolineare che la loro “non è stata una fuga, ma in questo momento non era fattibile per noi lavorare, avremmo messo a rischio il nostro staff locale”. Anche perché la situazione è precipitata in un amen. “Da una diatriba solo verbale tra i due leader al potere protratta negli anni, si è arrivati a un ultimatum di 24 ore e alle armi- racconta- dieci giorni di conflitto e abbiamo lasciato una città devastata, cadaveri abbandonati nelle strade, una guerra atipica senza una linea del fronte, ma con scontri a macchia di leopardo e questo crea insicurezza anche nella popolazione locale”. Una guerra scoppiata dalla sera alla mattina. “Il venerdì sera eravamo invitati da una ong per una delle ultime celebrazioni del Ramadan- prosegue- il sabato essendo festa dovevamo fare un giro al suq, ma al mattino abbiamo iniziato a sentire i primi spari.Nel giro di poche ore siamo passati all’utilizzo dell’aviazione in centro città”.
la testimonianza
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Già passati alle cronache i racconti concitati della mattina dell’evacuazione, con l’auto di Music for peace che non voleva saperne di partire, la batteria prestata ad amici sudanesi, i controlli incrociati ai checkpoint: due ore e mezza per percorre poco più di cinque chilometri e arrivare al punto di prelievo, alla residenza dell’ambasciatore. Solo a quel punto sarebbe intervenuta la logistica militare italiana. Il tutto sotto lo sguardo del figlio di otto anni del presidente di Music for peace e di sua moglie e altra colonna portante dell’associazione, Valentina Gallo, per la prima volta in missione. “Ma si è parlato troppo della missione della famiglia del Mulino bianco. La notizia non siamo noi che siamo tornati, ma che cosa succederà ora alla popolazione sudanese- ribatte Rebora- spero che il Sudan non venga abbandonato: è la reale porta d’Europa perché da lì si traccia la rotta libica e si arriva alle coste del Mediterraneo. Fino a 10 giorni fa il profugo sudanese era definito un migrante economico. È cambiato tutto in due giorni: noi dividiamo i profughi in migranti economici, politici, da emergenza di guerra. Ma queste distinzioni non esistono”.
A completare lo staff italiano di music for peace, c’erano anche il responsabile della missione, Pietro Biondi, e la social media manager, Chiara Gardella. E, a proposito di famiglia, Rebora non vuole “dimenticare l’altra parte della famiglia, lo staff locale, le sei persone sudanesi che sono rimaste a lavorare sul territorio. Non vogliamo fare i supereroi, ma a giungo prepareremo un’altra carovana per il Sudan: l’importante, nel frattempo, è riuscire a stringere accordi bilaterali”. Il figlio, comunque, ha partecipato attivamente alla missione e ha anche voluto girare un video per raccontare ai suoi compagni di classe che cosa stava succedendo nel paese africano. “Non voglio sembrare Superman, ma paura vera non ne ho mai avuta- racconta ancora Stefano Rebora- la paura genera panico e non ti permette di essere lucido nelle scelte. Bisogna essere razionali, prudenti e non istintivi. La paura c’era più che altro perché avevamo scelto di far fare la prima esperienza di missione a mio figlio: non avevo paura io, ma avevo paura per lui perché la sua presenza mi aveva reso più vulnerabile”.
Anche Valentina Gallo sottolinea che “da quando siamo scesi dall’aereo a Ciampino siamo stati al centro dell’attenzione, ma la tragedia umana resta in Sudan, la tragedia dei civili che nulla possono, la tragedia dei ragazzi che fanno parte delle milizie armate, la tragedia umana di donne e uomini che anelano a un processo di democratizzazione che gli è negato, la tragedia di un paese che sta spendendo milioni in armamenti quando potrebbero essere investiti in infrastrutture, sanità, scuole. Non spegnete i riflettori su questa che è una guerra a tutti gli effetti”. Pietro Biondi in guerra non ci si era mai trovato: “è stata una situazione surreale, ma una delle cose che mi rimarrà è la generosità del popolo sudanese, quando la mattina della partenza siamo rimasti con la batteria a terra, uno sconosciuto ha trascorso un’ora cercando di aiutarci e alla fine ci ha dato la sua batteria”.