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“Conte è da sfiduciare”, nel M5s Di Maio e i suoi vogliono cambio di leadership per riprendersi il Movimento

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Roma – C’è solo una cosa che al momento mette d’accordo le due tribù del M5S, i “contiani” e i “dimaiani”: stavolta bisogna andare fino in fondo, perché così è impossibile andare avanti. Tra i due, alla fine, ne rimarrà solo uno. Giuseppe Conte si sente tradito e per Luigi Di Maio vorrebbe una sorta di processo pubblico, non solo davanti ai parlamentari, ma di fronte a tutti gli iscritti. Il ministro ed ex capo politico invece non ha alcuna intenzione di scusarsi di qualcosa e anzi, tesse la tela in quelle che prima erano le “sue” truppe, gente da lui messa in lista nel 2018, nella convinzione che sia possibile scalzare l’attuale presidente o comunque relegarlo in un angolo.

Il rovescio delle parti tra l’avvocato e il ministro nel rapporto con il Pd

di Sebastiano Messina 30 Gennaio 2022
Già provato dall’affareRiccardo Fraccaronella settimana prima del voto per il Quirinale, con il già ministro sospettato di aver tramato alle spalle di Conte per mandare al Quirinale Giulio Tremonti, il presidente del Movimento si sente accerchiato. I take delle agenzie di stampa sul M5S non direttamente riconducibili ai vertici, i retroscena sui giornali: ogni commento o critica al suo operato è vista come una trama dei dimaiani. E così, a mali estremi estremi rimedi. La parola “espulsione”, riecheggiata già per Fraccaro, ora torna per Di Maio. «Ora basta, vanno cacciati tutti, meglio pochi ma uniti», si è sentito dire negli ultimi giorni — più volte — da esponenti vicini all’attuale vertice. «La situazione è fuori controllo, serve un chiaro atto di sfiducia contro Conte e i suoi», promettono invece i dimaiani. Loro non se ne vogliono andare né gli basta fare la corrente di minoranza.

I giochi per il Quirinale sono stati una sorta di pre-congresso, la convinzione del ministro è di poter contare su almeno 70-80 parlamentari, ad oggi (sono solo 20, replicano dall’altra sponda). È difficile dire come andrà a finire, perché al di là degli schieramenti in chiaro — i pesi massimi con Di Maio sono la viceministra all’Economia Laura Castelli e l’ex ministro Vincenzo Spadafora; i fedelissimi di Conte sono il capodelegazione al governo Stefano Patuanelli e l’ex reggente del Movimento Vito Crimi — c’è una vasta area grigia dentro il M5S che non ha ancora preso una posizione e che resterà alla finestra in attesa di fiutare l’aria. E poi ci sono le variabili. La prima: Grillo, il garante acciaccato ma ancora capace di spostare gli equilibri. Da tempo viene tirato per la giacca da entrambi i versanti, la sua assenza complica le cose perché ognuno gli mette in bocca tutto e il suo contrario. Ora viene descritto in piena sintonia con Conte, ora infuriato per essere stato ingannato sempre da Conte facendolo esporre su Belloni. Nessuno però dimentica la plateale demolizione di Conte, la scorsa estate, che stava facendo anche allora saltare in aria il M5S.

Arrivarono proprio Di Maio e Roberto Fico a riportarlo a più miti consigli. Il presidente della Camera in questi giorni si è tenuto distante dalla contesa e tale resterà almeno fino al nuovo insediamento di Sergio Mattarella, di sicuro un suo coinvolgimento produrrà degli smottamenti in un senso o nell’altro. Dopodiché Di Maio gode ormai di ampia stima nel cosiddetto establishment e non solo politico, ma Conte ha (o avrebbe) i voti fuori dal palazzo grazie ad un ancora alto consenso personale. E come dimenticare infine Alessandro Di Battista, ex di lusso oggi svincolato ma che se tornasse in partita potrebbe ancora fare la differenza? Sui social non manca mai di attaccare il M5S per i suoi “tradimenti” ma intanto ha comunque difeso Conte. Chi perderà il duello rusticano potrebbe anche decidere di andarsene, fondando altro. Un esito che complicherebbe la vita a molti: al centrosinistra e poi al governo stesso, peraltro alla Farnesina si continua a ritenere che Conte in cuor suo voglia farlo cadere. Commenta un big di primo piano: «Andremo in guerra, ci saranno morti e feriti. E però obiettivi, esigenze, linguaggi e target sono ormai troppo diversi». Chi conosce bene Di Maio lo racconta come avveduto nelle cose di partito, pronto a ingaggiare battaglia quando è certo di vincerla. Altrimenti chissà, dopotutto il Parlamento sembra orientato a varare una legge proporzionale e il destino di Mario Draghi in politica potrebbe non esaurirsi al 2023.

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