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Diritti e dignità, la sfida di Mattarella: “Le diseguaglianze frenano la crescita”

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ROMA – Per molti Sergio Mattarella ieri ha fatto un discorso di sinistra. Nel solco del cattolicesimo democratico del suo maestro, Aldo Moro. Ha pronunciato, in trentotto minuti, diciotto volte la parola dignità. Ha ricordato che non ci può essere progresso senza combattere le povertà. “Affinché la modernità sorregga la qualità della vita è necessario assumere la lotta alle diseguaglianze come asse portante delle politiche pubbliche”. Va costruita un’Italia più moderna, “del dopo emergenza”. Più competitiva, “ma anche più giusta”. Si è detto indignato per le troppi morti sul lavoro. Ha invitato a opporsi al razzismo e all’antisemitismo. A vigilare sulla vergogna della violenza contro le donne. Ha invocato la solidarietà verso i migranti, che ci impone “di combattere, senza tregua, la tratta e la schiavitù degli esseri umani”. “Dignità è non dover essere costrette a scegliere tra lavoro e maternità”. “Dignità è diritto allo studio”. “Dignità è un Paese libero dalle mafie, dalla complicità di chi fa finta di non vedere”. “Dignità è contrastare la precarietà disperata”. Aveva davanti agli occhi, mentre enunciava a Montecitorio queste idee, i giovani che lo seguono con crescente fiducia e il mondo dei non garantiti che si è rifugiato da tempo nell’antipolitica e nell’astensionismo. Il pensiero di Mattarella è sempre stato radicale. Ora si è incarnato definitivamente in una leadership. “La dignità come pietra angolare del nostro impegno, della nostra passione civile”, ha ricordato. Un manifesto.

Un discorso sobrio all’insegna dei diritti

di Francesco Bei 03 Febbraio 2022

È il giorno del bis. Entra alle 15,17 a Montecitorio. A Roma è un pomeriggio luminoso che annuncia la primavera. Le radio trasmettono a tutto volume la canzone di Mahmood e Blanco, Brividi. Turisti e curiosi assiepati dietro le transenne. La campana della Camera risuona lungo tutto il tragitto, dal Quirinale alla Camera che Mattarella compie per la seconda volta sette anni dopo. Lo attendono all’ingresso i presidenti Roberto Fico e Maria Elisabetta. Mette piede in aula alle 15,29. Partono due minuti di applausi da parte dei 996 grandi elettori sulle tribune. Tredici di loro sono risultati positivi ai tamponi antigenici di terza generazione fatti in mattinata, tra cui Matteo Salvini. Il leader della Lega da casa si congratulerà al telefono con il Presidente.

Alle 15,31 Mattarella giura fedeltà alla Costituzione e alla Repubblica. Dal Gianicolo partono 21 colpi di cannone a salve, uno ogni trenta secondi: una tradizione militare che risale al Seicento inglese, quando s’insediava il re. Poi inizia il discorso. “È per me una nuova chiamata – inattesa – alla responsabilità, alla quale tuttavia non posso sottrarmi. Vi ringrazio per la fiducia”, dice. Perché ha detto sì? “Sono stati giorni travagliati per il Parlamento, travagliati anche per me” spiega. Laggiù, al banco della presidenza, appare molto diverso rispetto alla prima volta. Come più leggero, più consapevole. Non ha più paura. Viene interrotto dagli applausi 55 volte. Spesso i peones si alzano in piedi e danno il là a battimani frenetici. Mattarella non si è mai sentito l’uomo della Provvidenza, ma in quest’occasione disegna una visione e un orizzonte lungo. Sa che il Paese è con lui.

Prefigura un’Italia più forte che “cresca in unità. “In cui le disuguaglianze – territoriali e sociali – che attraversano le nostre comunità vengano meno”. Ringrazia Mario Draghi. Dedica un lungo capitolo alla crisi della politica: “Va riannodato il patto costituzionale tra gli italiani e le istituzioni”. Rafforzare l’Italia “significa anche metterla in grado di orientare il processo per rilanciare l’Europa, affinché questa divenga più efficiente e giusta, rendendo stabile e strutturale la svolta che è stata compiuta nei giorni più impegnativi della pandemia”.

Dal Colle la spinta a Draghi. E avanza l’idea di rivedere la cabina di regia

di Tommaso Ciriaco 03 Febbraio 2022

La paralisi della scorsa settimana ha confermato che c’è bisogno di una riforma radicale dei partiti. La crisi è nera. Ma non sferza il Parlamento, come fece Napolitano nel 2013, lo elogia piuttosto. Il Parlamento è centrale. E va rispettato. È una critica ai troppi decreti d’urgenza e “alla forzata compressione dei tempi parlamentari, che rappresenta un rischio. Un’autentica democrazia prevede il doveroso rispetto delle regole di formazione delle decisioni, discussione, partecipazione. Occorre evitare che i problemi trovino soluzione senza l’intervento delle istituzioni a tutela dell’interesse generale: questa eventualità si traduce sempre a vantaggio di chi è in condizione di maggiore forza. Poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico”. L’emiciclo esplode di entusiasmo.

Mette in guardia contro “i regime autoritari o autocratici che rischiano ingannevolmente di apparire, a occhi superficiali, più efficienti di quelli democratici”. E un monito a non farsi infettare di nuovo dal virus dell’antipolitica. Serve una legge elettorale? “Non compete a me indicare percorsi riformatori da seguire. Ma dobbiamo sapere che dalle risposte che saranno date a questi temi dipenderà la qualità della nostra democrazia”.

Fa un elogio dei partiti, dei sindacati. Un invito a impegnarsi in politica. “I partiti sono chiamati a rispondere alle domande di apertura che provengono dai cittadini e dalle forze sociali. Senza di loro il cittadino si scopre solo e più indifeso. Va rilanciata una stagione di partecipazione”.

È duro sulle degenerazioni correntizie dei giudici. Un settore squassato dagli scandali. Qui Mattarella è stato accusato di essere stato poco incisivo durante il settennato. Rimedia subito. Sostiene che la magistratura è divenuta un terreno di scontro che ha sovente perso di vista gli interessi della collettività. Il Csm deve fare le riforme. Va recuperato un profondo rigore da parte dei magistrati. I cittadini devono poter nutrire fiducia e non diffidenza verso la giustizia”. Sono parole che scuciono gli applausi del centrodestra.
“Nuove difficoltà ci attendono”, dice, riferendosi al caro bollette. Ricorda Monica Vitti, David Sassoli, Lorenzo Parelli, lo studente morto in fabbrica durante un progetto scuola-lavoro. E poi cita diciotto volte di fila la parola dignità. Nove volte risuona la parola sociale. Finisce alle 16,30. Gli tributano un applauso di cinque minuti. Mattarella saluti tutti più volte, ringrazia, gli applausi non smettono, anzi diventano più potenti. È il Parlamento che applaude la propria impotenza, come fece con Giorgio Napolitano otto anni fa.

uori lo attende Mario Draghi. Parte l’inno di Mameli. Quindi vanno all’Altare della Patria, dove depongono una corona di alloro. Poi salgono insieme sulla storica Lancia Flaminia. C’è tantissima gente a piazza Venezia. Poco prima di giurare il presidente della Consulta Giuliano Amato gli dice: “Hai visto che è finita come dicevamo noi. Non come dicevi tu. E va beh, succede insomma”. E Mattarella: “È una cosa mi altera programmi e prospettive”. Ma i tanti cittadini lungo le strade sono contenti di questo secondo mandato. E sono venuti a salutarlo perché alla fine la Repubblica vive anche di simboli.

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