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Per strada si rivedono i sorrisi, ma che fatica separarsi dalla mascherina

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E comunque no, non è vero, è una sciocchezza: nessuna nostalgia. Finiremo quasi per dimenticarle, un giorno. «Che brutta fine le mascherine», sospira d’altra parte Dargen D’Amico in una canzone dell’ultimo Sanremo. Circola parecchia retorica intorno all’abbandono (parziale) dei cosiddetti dispositivi di protezione individuale. Eppure, quando ci furono consigliate e successivamente imposte, eravamo tutti più che imbarazzati. Ma ti pare che vado in giro così? Innaturale, grottesco lembo di stoffa, che bambini nati o cresciuti negli anni Venti di questo secolo credono essere da sempre, a intermittenza, su nasi e bocche.

Se non te la togli — almeno nel primo giorno di decadenza dell’obbligo all’aperto — non è perché sei affezionato. Non te la togli perché è un’abitudine radicata, un tic indotto («oddio, la mascherina!»). Non te la togli, forse, perché nelle prime ore del mattino tiene al caldo le vie aeree superiori. Muovendomi per Roma, a inizio giornata, il colpo d’occhio mi ha restituito una netta prevalenza di gente con mascherina. Almeno due su tre. Ora dopo ora, il sole tiepido deve avere pungolato anche gli iper-prudenti o i ligi distratti: e ho visto finalmente più volti scoperti, smorfie, sorrisi, sbadigli — una grammatica facciale che da due anni a questa parte si è manifestata solo a intermittenza e perlopiù fra intimi.

La folla degli sconosciuti si è fatta ancora più sconosciuta, dentro una specie di rebus mimico in cui hanno avuto voce solo gli occhi. Lucidi sopra la mascherina, allegri, severissimi, cupi. E c’è chi ha voluto vederci un’occasione seduttiva — questo parlarsi a sguardi. Ma no, meglio le facce tutte intere, mi dico, mentre una donna parla al telefono con la madre e le chiede: «Ma è da oggi che non c’è più l’obbligo?», e proprio in quel momento abbassa la stoffa.

Che diventa un poggiamento, una gorgiera, un attimo dopo un bracciale. Non è un talismano, non è una coperta di Linus, non è niente, è solo un’intrusa nella vita di tutti, un’ospite sgradita che col passare dei giorni è semplicemente diventata familiare. Si è macchiata di rossetto, di fondotinta, di caffè. Ci ricorderà, dalle fotografie scattate in questa stagione, a cosa ci eravamo abituati. Perfino ad abbassarla per baciarsi, come fanno due adolescenti alla fermata del tram.

Fermo a caso qualcuno per rubare sensazioni, un signore mi mostra il sigaro e con un ghigno mi fa: «M’ha sempre un po’ salvato questo». Due coniugi attempati che la indossano impeccabilmente, alla mia indiscreta domanda sul perché, rispondono solo: «Boh», ed è la risposta più bella. Anche se non vedo l’eventuale sorriso, non vedo niente.

C’è chi ha avuto il tempo, naturalmente, di affidare ai social le proprie considerazioni. E così, sotto gli hashtag di tendenza ieri #mascherina e #mascherine, trovi la battuta sulla «mascherinite» come astinenza acuta da Ffp2, o sull’impossibilità di fingere — a questo punto — di non riconoscere qualcuno. C’è chi si vanta di non averla indossata all’aperto praticamente mai («Ora potete farcela tutti!»), e chi invece annuncia che continuerà a indossarla («È troppo presto per cantare vittoria»).

Il virologo famoso, in una foto, la lancia in aria per celebrare il presunto «ritorno alla vita». Ma quante volte ci siamo tornati? Anche questa è retorica, perché la vita con mascherina non è stata una non-vita. È la vita con un’altra faccia, una faccia dimezzata — il trauma non è stato piccolo, e la riabilitazione sarà lunga. Per chi l’ha tolta con spensieratezza, per chi ancora non riesce e non riuscirà per un po’, per chi se la dimentica e se ne ricorda solo perché si appannano gli occhiali. Per chi ha dovuto dire addio a qualcuno da lontano, e pensa che, fosse un pezzo di stoffa a separare gli umani, sarebbe niente.
 

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