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Mani Pulite 30 anni dopo, Sergio Cusani: “Ero il colpevole e non ho cercato perdono. Ma il malaffare c’è ancora”

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MILANO – “Sono certo di essere in quest’aula l’unico pregiudicato. Io non venivo in questo palazzo da tantissimo tempo, è po’ come tornare a trent’anni fa”. Sergio Cusani fu l’unico imputato del primo processo Enimont, trasformatosi presto nell’atto d’accusa alla Prima Repubblica. E ieri è tornato a Palazzo di giustizia, a Milano, per il convegno dell’Associazione nazionale magistrati sui “testimoni” di Mani Pulite. È seduto in Aula magna accanto a Gherardo Colombo, uno dei pm del pool che lo arrestò nel 1993. In questo palazzo, lo sconosciuto manager del gruppo Ferruzzi divenne presto il simbolo della corruzione di un’intera classe dirigente. “Ho commesso la colpa e non ho cercato il perdono, io stesso non mi perdonerò mai gli errori commessi – esordisce -. Da colpevole affermo che la colpa, come la sofferenza, non è risarcibile. Una volta commessa è inemendabile, ma può diventare occasione di riscatto sociale, come ho tentato di fare in tanti anni”.

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Dopo la condanna e il carcere, Cusani ha lasciato il mondo della finanza, dedicandosi a fondo a progetti di volontariato e di recupero per i detenuti. “So che quando sarà, me ne andrò con un pesante fardello. Sono consapevole di avere una responsabilità personale che non può essere in alcun modo sottaciuta. Ancor più perché avevo tutti gli strumenti per capirlo, per la mia esperienza di responsabile del Movimento studentesco nazionale in Bocconi”. Il primo riferimento agli uomini che lo hanno indagato è per l’allora capo della procura Francesco Saverio Borrelli. “Per alcuni sono stato colpito dalla “sindrome di Stoccolma” per aver partecipato ai suoi funerali. È stato un gesto di restituzione doveroso, dopo la bellissima lettera che mi aveva mandato quando è morta mia madre, in cui la confrontava con la morte della sua”.

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Cusani parla poi del suo processo. “È ancora convinzione comune che vi sia stato un solo processo in Mani pulite, il mio, usato in aula come un set con le tv in diretta. Ma ne avveniva un altro insieme al mio, ben più importante, quello alla più grande impresa chimica italiana. Al primo, portato avanti da Di Pietro, dovevano assistere tutti. Il secondo, del pm Francesco Greco, fu discreto. Di Pietro voleva additare i potenti e mostrarli nella polvere, a Greco interessava comprendere i meccanismi del potere economico per intervenire in modo duraturo su quei reati”. Cusani chiese di celebrare subito il dibattimento. “Mi fu assegnato l’immediato, in solitario, stralciato dagli altri imputati. Mi dissero che sarebbe durato tre giorni, ma durò sei mesi. Gli altri imputati in Enimont si avvalsero della facoltà di non rispondere e furono giudicati sulla base delle loro dichiarazioni nel mio processo. In aula dovevo mostrare il volto della colpa, ma non avevo intenzione di scaricare su altri le mie responsabilità per ottenere benefici. Con la diretta televisiva martellante, il Paese era portato a credere di trovarsi di fronte a una rivoluzione che tale non era. Ritenere che un costume così diffuso si elimini incarcerando i corrotti si è dimostrata un’ingenuità. L’arresto di qualcuno non riesce a bloccare il malaffare di tutti gli altri”.

Trent’anni dopo Colombo è molto più vicino alle posizioni di Cusani che a quelle dei suoi ex colleghi. “C’è una grandissima distanza del processo penale dalla vita – riflette l’ex pm – . Riusciamo con tanta difficoltà a liberarci dall’idea della colpa da cui sei partito tu – dice a Cusani -. Io mi sono dimesso perché ho smesso di credere all’utilità della reclusione, mi è sempre costato togliere la libertà alle persone. Spero che si capisca che c’è un’altra strada rispetto al carcere: è dimostrato che il 70 % di chi entra ci ritorna”.

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