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Fortunato Verduci, indagato per il delitto del trapano, intercettato mentre scherza con i colleghi: “Perché l’ho ammazzata? Per passatempo”

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«Fortunato io ti devo fare una domanda, ma perché l’hai ammazzata?». Sono le otto del mattino del 9 maggio scorso.

Fortunato Verduci, il carrozziere accusato di aver ucciso Luigia Borrelli tre decenni fa, risponde a un collega ridendo: «Eh per passatempo, come un altro».

Pochi minuti dopo, parlando della vita che si fa in carcere, lo stesso carrozziere chiede al compagno di lavoro ritenuto un “esperto” di istituti penitenziari: «E con due omicidi che fanno?».

Non ci sono soltanto le analisi del Dna, sempre più precise e dettagliate con il passare degli anni, fra gli elementi che ha in mano la pm Patrizia Petruzziello contro l’uomo ritenuto il “killer del trapano”, riferimento all’atroce delitto commesso l’ormai lontanissimo 5 settembre 1995.

Ci sono intercettazioni che gli inquirenti, la Squadra Mobile e la Guardia di Finanza, ritengono pesantissime. Discorsi captati dopo che gli stessi colleghi del 65enne sono stati sentiti come testimoni sull’assassinio rimasto insoluto fino ad oggi.

Perché nell’officina di Staglieno dove Verduci è oggi dipendente, in quei giorni di maggio si parla eccome. E si parla, in generale, dell’inchiesta. Non senza intuizioni azzeccate: «Secondo me te lo dico io… la sigaretta. Loro lì stanno facendo già la prova del Dna, perché pare che sulla scena dell’omicidio, abbiano trovato delle sigarette».

Risposta secca del 65enne, «Diana blu lunghe», seguita poi da dieci secondi di silenzio. È la stessa marca di sigarette trovate nel 1995 sul luogo del delitto, repertate allora dagli investigatori e dalle quali era stato estratto l’identico Dna maschile estrapolato dalle tracce di sangue maschile presenti nel basso di vico Indoratori il giorno del ritrovamento del cadavere di Luigia.

Insomma in quei giorni di maggio fra le risate in officina va in scena quella che pare a tutti gli effetti l’educazione alla vita da detenuto di Verduci (oggi difeso dai legali Nicola Scodnik e Giovanni Ricco): «Ho lavorato tanto nella vita, ora non voglio fare niente e il carcere mi fa solo che bene», racconta il 65enne.

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Che riceve un’altra “dritta” da un collega: «Per omicidio devi stare attento che non ci siano parenti dell’altro perché ti impiccano veramente, eh? E non è una sensazione molto bella». Ma nelle carte non ci sono soltanto le conversazioni dell’indagato con chi passa la giornata insieme a Verduci nell’autorimessa.

Pure i dialoghi con la compagna che, lei sì, si mostra decisamente preoccupata dopo essere stata convocata in Questura, per giunta dalla squadra Omicidi. Anche perché lei stessa si ricorda che tempo addietro era stata la Guardia di Finanza a cercare Verduci.

E ne chiede conto al compagno: «Mah cazzate, cazzate! Te lo avevo detto, ora non mi ricordo più comunque cavolate. I nomi dei miei zii, i nomi dei miei nonni eee…». «Ma mi sembra strano che la Finanza chiama…», «ma cosa vuoi che ti dica belin», «e allora può darsi che c’era già un’indagine allora perché mi sembra strano che la Finanza chiama per così».

Secondo gli inquirenti, è proprio sotto le pressioni della compagna che un giorno Verduci si presenta in Questura, cercando di capire cosa stia succedendo. È lui a raccontarlo ai colleghi: «Ho detto di essere Verduci Fortunato e ho chiesto cosa c’è e cosa stanno guardando in modo da poter essere d’aiuto e fare meno fatica».

Naturalmente, senza avere alcuna risposta. Così la donna racconta a un’amica, riportano gli investigatori, «di aver detto a Fortunato di andare a chiedere di nuovo alla polizia informazioni, ma che gli ha risposto di no perché non gli dicono niente».

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Proprio la compagna, dopo un primo interrogatorio più generico, viene convocata una seconda volta dagli investigatori. Stavolta le vengono mostrate le foto agghiaccianti della scena del crimine: Luigia Borrelli riversa in un lago di sangue, quindici fori di trapano sul collo e sullo sterno.

 

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