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Omicidio Bergamini, trentacinque anni dopo l’ex fidanzata condannata a 16 anni

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Non un suicidio, ma un omicidio, come per trentacinque anni ha sostenuto, inascoltata, la sorella gemella Donata. E per di più dettato da motivi banali, futili, quasi incredibili nell’Italia che galoppava verso l’ultima decade prima del 2000. Denis Bergamini, la stella del Cosenza calcio trovato senza vita il 18 novembre del 1989 sulla statale 106, nei pressi di Roseto Capo Spulico, nel cosentino, non si è suicidato lanciandosi sotto le ruote di un camion in corsa, ma è stato ammazzato per ordine di Isabella Internò, la fidanzata che non sopportava di essere stata lasciata.

Così ha stabilito ieri sera la Corte d’Assise di Cosenza, che l’ha condannata a 16 anni di carcere. Terrea in volto, lei ha atteso in aula la sentenza, poi si è allontanata rapida da un’uscita secondaria. «Sono innocente», aveva provato a sostenere per l’ultima volta prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio. Nessuno le ha creduto.

«Quando ho capito che la giustizia stava arrivando ho pensato a mio fratello», mormora poco dopo la sentenza Donata Bergamini, la sorella del calciatore, mentre in lacrime si stringe ai figli Denis, Andrea e Alice. «Non mi interessa l’entità della pena – dice – Per me la cosa più importante è che sia stato riconosciuto quello che io e mio padre abbiamo detto fin dall’inizio, che Denis è stato ucciso». Da fuori arriva l’eco di applausi e cori dei tifosi del Cosenza, per tutto il giorno rimasti in presidio davanti al tribunale con striscioni e bandiere. «È stata fatta giustizia. Oggi possiamo dire che Denis è stato assassinato. Se avessimo avuto questa procura e questi pm fin dal primo momento non ci sarebbero voluti 35 anni. Adesso però — dice l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia — bisogna processare anche il cugino di Isabella».

Lui si chiama Roberto Internò e l’ipotesi è che sia stato l’esecutore materiale dell’omicidio, o che quanto meno abbia collaborato. La Corte ha ordinato alla procura di battere la pista, oltre che di indagare sui troppi testimoni che in aula non avrebbero detto la verità, a partire da Raffaele Pisano, il camionista che quella notte di trentacinque anni fa avrebbe travolto Denis Bergamini. O meglio, che così ha sempre raccontato.

Stesso copione ha seguito fin da subito anche Isabella Internò, all’epoca appena maggiorenne. «Voleva lasciare il calcio. L’ho sentito dire: “Ti lascio il mio cuore, ma non il mio corpo”. E poi si è tuffato», la versione di Internò, rimasta identica per decenni. Bergamini, brillante calciatore che in quei mesi si giocava il passaggio alla massima serie con un trasferimento alla Fiorentina o al Parma, in realtà — ha raccontato per anni la donna — in quel periodo era depresso. La famiglia non ci ha mai creduto, gli inquirenti dell’epoca sì. È stata l’origine di tutti i depistaggi, le bugie, le storture, le inchieste che si sono accartocciate su se stesse, per poi naufragare nell’archivio dei casi insoluti.

Ci è voluta una perizia nel 2017 per dare finalmente una svolta al caso. L’ha chiesta e pretesa la famiglia, che per anni ha battagliato per far riaprire il caso. “Asfissia meccanica violenta”, hanno sentenziato i tecnici forensi. Denis Bergamini, è emerso da quegli esami, è stato strangolato con una sciarpa o un sacchetto e poi appoggiato sotto le ruote del camion. Da lì è partita la nuova inchiesta, arrivata tre anni fa a giudizio.

In mezzo, quasi tre decenni di menzogne, ricostruzioni ad arte, silenzi e false piste. La ragione dell’omicidio di Bergamini è stata cercata negli abissi del Totonero, in ambienti di ‘ndrangheta, fra i presunti rapporti ambigui del calciatore, si è detto addirittura che fosse finito in un giro di droga, probabilmente a sua insaputa. Nulla di vero. Il movente dell’omicidio è banale, gretto.

Isabella Internò non sopportava di essere lasciata dopo essere stata “disonorata” e per questo avrebbe deciso di punire l’ex fidanzato. Involontariamente se lo è fatto scappare dodici giorni prima di quel 18 novembre con un’amica, Tiziana Rota, moglie del calciatore Maurizio Lucchetti. «Era rimasta incinta — ha raccontato la donna in aula — e aveva deciso di abortire perché lui non la voleva sposare». Troppo morbosa, troppo asfissiante. In più, Bergamini sapeva che la carriera lo avrebbe portato lontano da Cosenza. Internò all’epoca era poco più di una ragazzina, ma all’idea di perderlo non si rassegnava. «No, Tizià — ha riferito la donna, ricordando quella conversazione che per decenni le è ronzata in testa — è un uomo morto, se non torna con me lo faccio ammazzare. Lui mi ha disonorata».

L’ennesima tessera di un mosaico che lentamente ha ricostruito un quadro sordido di silenzi, depistaggi, pigrizie investigative. «Internò — aveva spiegato il procuratore Alessandro D’Alessio durante la requisitoria — ha tradito l’affetto che il ragazzo aveva per lei, ha esasperato il rapporto e pur di salvare l’onore non ha esitato ad agire come sappiamo». Ma non lo ha fatto da sola. La caccia agli assassini di Denis Bergamini continua

 

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