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I predatori dell’Accademia

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C’è un luogo se possibile più separato di altri dove la violenza del maschio continua a godere dell’omertà assicurata dal rango, dall’omertà di casta, dalla paura delle vittime: le università. Da Catania a Venezia, a Milano, abbiamo raccolto le storie di Micol e delle altre. Quelle che hanno avuto la forza di denunciare. Quelle che hanno pensato che dimenticare fosse meglio. Un’inchiesta per rompere il silenzio.

 

Micol

Le mani di Micol, smaltate di rosa, tremano. Lei ricorda, adesso, la stanzetta del coordinatore di Fisiopatologia circolatoria e il professore dietro la scrivania: “Si avvicinava, mi abbracciava, si spostava e mi stringeva da dietro. Si appoggiava, voleva farmi sentire quanto mi desiderava. E, spesso, lasciava la porta del suo ufficio aperta”. Trattiene le lacrime. Dice: “Sono stata molestata per tre anni consecutivi da studentessa, per altri tre anni, professionista laureata, ho affrontato nuovi incubi”. Si ferma, riprende il filo: “Ho subito violenza dal professore che gestiva il corso per diventare perfusionista cardiovascolare, lui organizzava le lezioni e il calendario, ti valutava in diversi esami”. Era un docente influente nella Cardiochirurgia dell’Università di Catania.

La perfusionista Micol ricorda quella stanzetta, stretta e corta, al piano terra dell’ospedale Vittorio Emanuele Ferrarotto, ora che in un ambulatorio privato ai piedi dell’Etna ha scelto di liberarsi: “Il professor Santo Torrisi, responsabile delle attività di tirocinio, ha fatto a me quello che ha fatto a molte studentesse, alle colleghe più giovani. Abbiamo firmato la prima denuncia in tre, poi a testimoniare sono venute in dieci”. Il professore, di fronte alle evidenze, è stato prima sospeso e poi licenziato. In cinque anni di processo, sono state ascoltate quattro parti offese. E al timore della prescrizione, si somma la paura del presente: “Ogni giorno, quando entro in reparto, la ferita si riapre”.

“La stanzetta del mio inferno”

Parla Micol, assistente in sala operatoria all’Università di Catania: “Sono stata molestata per tre anni dal coordinatore del corso di laurea. Mi chiamava nel suo piccolo ufficio e ogni volta era una nuova violenza. Lo ha fatto a tante studentesse e colleghe. Lui è a processo, ma chi non lo ha denunciato è tornato a dirigere il reparto”

 

Il professore

Micol ha 32 anni, è figlia di un cardiologo e questa volta vuole dire tutto sulle violenze subite. Su chi nulla ha fatto per evitarle, proteggendo il molestatore. Guarda i vetri ottriati della finestra del presidio ospedaliero e racconta: “Sono entrata nel corso di laurea triennale di Tecniche di Fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare nell’ottobre del 2009”. Era la seconda stagione di quell’insegnamento in facoltà, Professioni sanitarie. S’impara, esame dopo esame, a gestire le apparecchiature che in sala operatoria, durante un intervento al cuore, mantengono in vita il paziente. “Dopo il diploma, ho superato il pre-esame. Con altre cinque studentesse. Ci siamo accomodate in aula e nei primi giorni abbiamo conosciuto il nostro coordinatore, il professore a contratto Santo Torrisi. Era un docente affabile, un accentratore naturale che presto avrebbe creato un clima familiare, intimo”. È un insegnante di 52 anni, allora, il professor Torrisi. Ama portare la camicia sbottonata sul petto, anche in corsia. È un professionista vicino al primario e alla direzione generale. “Ho notato, presto, che cercava continuamente il contatto fisico, l’abbraccio. Iniziò a riempirmi di complimenti. E a farmi proposte di viaggi congressuali, viaggi personali. Avevo 19 anni, ero in grande imbarazzo. Schivavo le sue allusioni, ma mi sentivo in torto, come se stessi sbagliando qualcosa. Mi chiamava nella sua stanza con ogni pretesto: ‘Vieni giù, dobbiamo vedere il calendario delle lezioni”. Già, la stanzetta. “Sentivo l’accelerazione dei battiti, la paura che saliva. Informavo sempre qualcuno quando dovevo andare nel suo ufficio: ‘Per favore, tra pochi minuti chiamami’. Quando ero lì, diceva: ‘volevo solo darti un bacio’. Allora io mi allontanavo e lui avanzava. E appena la tensione saliva, cambiava discorso. Era abile nella manipolazione e ogni volta mi chiedevo: avrò capito male?”.

L’ambulatorio di Catania dove si è svolta l’intervista 

 

L’esame

C’è un giorno che segna il destino della giovane aspirante perfusionista. L’esame di Anatomia, primo anno accademico inoltrato.

“Quella mattina faticavo, non mi venivano le risposte. Verso la fine del colloquio si palesò il professor Torrisi. Mi vide in difficoltà, intervenne, parlò con la professoressa, che si sentì obbligata a chiudere la prova. ‘La studentessa è preparata’, mi congedò con un trenta. Non l’avevo chiesto, avrei accettato quello che meritavo. Mezz’ora e il coordinatore mi chiamò nella stanzetta. Lo raggiunsi, mi guardò negli occhi e disse: ‘Hai capito quello che ho fatto per te? Devi offrirmi una cena’. Quel giorno iniziò l’inferno”. I complimenti diventano tentativi di baci. Gli inviti a viaggiare insieme, proposte esplicite: “Io ti posso dare una notte di sesso”. Micol, intanto, in corsia si fidanza con un chirurgo: il braccio destro del primario, Carmelo Mignosa. Il professor Torrisi ne è geloso: “Mi chiamava a casa, fuori orario, mi chiedeva l’indirizzo. E poi in quella stanzetta: ‘Sai cucinare? Che cosa prepareresti per me?’. Ogni giorno era peggiore di quello precedente. Decisi di superare i miei silenzi. Fin lì avevo voluto proteggere mia madre e mio padre, ma continuavo a sentirmi sbagliata, provavo un nauseante senso di vergogna. Mi confidai con una collega e lei mi confidò che stava subendo gli stessi atteggiamenti. Sempre il coordinatore. Parlai allora con un collega, un uomo. Vivaddio, non ero io quella sbagliata, era il professor Santo Torrisi che mi molestava”.

Una giovane perfusionista, un’amica, aveva preferito licenziarsi pur di liberarsi di un simile assedio. Una collega esperta, da trent’anni dipendente, ricordava il suo periodo di ingresso: c’era già Torrisi in corsia, ci furono le molestie. “Sono certa che molte donne del reparto abbiano accettato di subire. Lui puntava sul ruolo, sottolineava il suo potere. Incuteva paura. Non importunava tutte, sceglieva le donne giovani e con il seno grande. Per stare bene nel gruppo, per tenere il posto di lavoro, puoi finire per accettare. Succede. L’ambiente ospedaliero è maschile, maschilista. Dentro un ospedale non siamo mai uguali”. Micol smette di frequentare il corso, ed è già al secondo anno: “Non avevo più un momento di libertà”. Diversi colleghi uomini intervengono. Lo fa anche il fidanzato chirurgo, che affronta Torrisi: “Ma che dici?”, allarga il sorriso il coordinatore, “io tratto le mie scolare come fossero figlie, è tutto un malinteso”. La studentessa tiene duro, rientra negli studi: “Immaginavo che tutto questo sarebbe finito”.

 

Reparto

Micol entra in reparto da neolaureata nell’autunno 2012, ma il professor Torrisi non demorde. “Mi parlava di far crescere la mia retribuzione con diversi regali di valore, mi parlava di carriera. Capii in fretta, inoltre, che stava iniziando, seriale, a dedicarsi alle matricole”.

Quando la perfusionista, ora pubblica dipendente, prova ad allontanarsi dal suo controllo, il docente a contratto diventa cattivo. “Se non riconoscevo la sua figura di capo, mi apostrofava, mi appiccicava etichette degradanti”. La metteva, ricorda, contro i colleghi di lavoro. “Decisi di non subire più e andai dal direttore dell’unità operativa, con il cuore in mano, come poteva fare una ragazza di 23 anni. Chiedevo aiuto e raccontai tutto quello che avevo subito. Volevo uscirne. Il direttore, Carmelo Mignosa, senza mai cambiare sguardo, mi fece assaporare la prima porta chiusa. Mi ci sarei dovuta abituare. Disse, freddo, che lui e il Torrisi erano grandi amici, che il professore aveva giurato sulla famiglia che i suoi comportamenti erano sempre stati corretti e che le mie erano grandi menzogne, allestite per togliergli il posto di lavoro. ‘Dottoressa, è meglio che se ne vada’”.

Quel direttore era un cardiochirurgo quotato in Sicilia, aveva lavorato all’estero: “La mia parola di neolaureata contro la sua era niente”. Il colloquio con il responsabile del reparto cambiò l’atteggiamento intorno alla perfusionista. “Quando vedi un primario d’esperienza prendere quella posizione, diventa dura schierarti con la vittima”. Micol adesso prende fiato, accarezza la croce al collo. Si siede. Guarda il compagno, il cardiochirurgo del reparto, che ora è suo marito e padre di suo figlio. “Radunai le donne del reparto di cui avevo conosciuto la storia”. Erano dieci. “Scrivemmo alla presidente del corso di laurea, Valeria Ilia Calvi. Una donna, appunto. Convocò subito una riunione, ci ascoltò, si mostrò scossa: ‘Quello che è accaduto è grave’. Promise provvedimenti, ma al secondo incontro, convocato un mese dopo, trovammo una persona diversa: la presidente del corso aveva trasformato la sua compassione in una difesa attiva di Torrisi. ‘A chi è uscito dal triennio e si è laureato non posso dare nulla, alle nuove studentesse dico che se il professore non mostrerà atteggiamenti dubbi continuerà a essere il vostro docente’. Credo fosse stata raggiunta e istruita dai vertici aziendali”.

 

Guerra psicologica

Finite le molestie, al Policlinico inizia la guerra piscologica. “Ero diventata la mela marcia, quella che stava denunciando. Passavo nei corridoi e gli uomini del reparto dicevano ‘qui c’è puzza di merda’. Sapevo di essere nella ragione e non volevo fermarmi, ma ormai soffrivo di attacchi di panico. Con due colleghe decidemmo di scrivere al direttore generale, Salvatore Paolo Cantaro, e al rettore dell’Università di Catania, Giacomo Pignataro. Quella lettera, sì, la firmammo solo in tre. Era una denuncia a tutti gli effetti, le altre non se la sentirono”. Siamo a settembre 2014. “Nell’esposto c’era l’esperienza di ciascuna di noi”. Il rettore la girò alla Procura di Catania e il pm Marco Bisogni la trasformò in un procedimento penale. Le testimonianze erano concordanti e l’Azienda sanitaria fu costretta ad aprire un procedimento disciplinare. Il professor Santo Torrisi venne sospeso per sei mesi e poi licenziato.

Micol aveva denunciato anche il primario, quello della porta chiusa, “io e Santo siamo amici”. Primo aprile 2015, la difende l’avvocatessa Roberta Marchese. Da quella querela nascono due procedimenti. Il primo per omessa denuncia e favoreggiamento. Le intercettazioni, perché per l’inchiesta principale sono state concesse le intercettazioni telefoniche e anche installate le telecamere nascoste, rivelarono che il direttore continuava a mantenere rapporti con il presunto molestatore: “Torrisi continua a telefonarmi per il procedimento interno”, dirà a un collega. Mette in guardia “Santu u porcu” dai rischi che sta correndo, come si legge nell’ordinanza del Gip che sancisce gli arresti domiciliari di Torrisi: “Quel tuo vizietto ti porterà in carcere”. Il Gip chiosa: “Il Torrisi si consiglia in ordine alle strategie difensive da seguire con il Mignosa”. Dice Micol: “Non ci ha mai offerto una tutela, non ha mai denunciato”.

Università degli studi di Catania 

 

Il processo

Al procedimento penale emersero diverse questioni: “Il primario mi aveva allontanato dalla sala operatoria, quindi dall’unità operativa”, metterà a verbale la perfusionista, “non aveva rinnovato il contratto a un dipendente che aveva scelto di difenderci, non aveva tutelato la collega che si era licenziata per non subire più le avance del Torrisi”. Quest’ultima, oggi, lavora a Londra. Diventarono pubbliche le testimonianze “delle altre”: “Se continui a essermi ostile sarai bocciata ai miei esami”, avrebbe detto il coordinatore a una subordinata. “Sei una stronza, una bastarda”, a un’altra, mentre le baciava il viso. “Quanto sei bella, non ti posso guardare”, e si strofinava: “Me lo fai diventare duro”. Ancora: “All’esame mi derise platealmente davanti agli astanti”. L’accusa sancì: “Torrisi impediva con la forza di allontanarsi dall’ufficio”, “richiedeva alla parte offesa rapporti sessuali orali”, “la stringeva in ascensore”. In altri momenti, indaffarato, spingeva le studentesse che gli si avvicinavano contro il muro. O le insultava in siciliano. “Leggevo quelle intercettazioni ed ero convinta che avrei ottenuto giustizia”, dice Micol.

Nel giugno 2015, con l’emersione delle inchieste, il direttore del reparto lasciò. Dimissioni volontarie. Micol: “Allontanate le due figure di spicco, in Cardiochirurgia si ritrovò serenità, il lavoro quotidiano rientrò nei binari della normalità. Mi era stata data una seconda possibilità per fare questa professione come meritavo”. Non sarà così. Il primo fascicolo, l’omessa denuncia e il favoreggiamento, si chiuderà con la richiesta di archiviazione dello stesso procuratore Bisogni. Scriverà il pm nella richiesta: “Nonostante sia chiara la connivenza rispetto ai comportamenti illeciti del Torrisi, mai contrastati nonostante espliciti avvertimenti provenienti da altri sanitari, non si può dimostrare nel dettaglio che il direttore del reparto fosse a conoscenza dei fatti al momento in cui questi fossero accaduti e fosse nelle condizioni di presentare una specifica denuncia”.

Nel corso del processo alcuni testimoni avevano raccontato gli sprechi del reparto: il coordinatore Torrisi gestiva gli acquisti della Cardiochirurgia, i carabinieri certificarono la rottamazione di strumenti incellofanati: “Ho constatato che sono stati effettuati acquisti di materiale deperibile in maniera apparentemente irrazionale”, dirà un teste. Il rappresentante di una casa medica che forniva gli apparecchi per i perfusionisti “si qualificava come cugino del Torrisi”. Il direttore del reparto si difenderà con una memoria in cui scriverà: “Posso aver sprecato due circuiti su venti, ma con il mio metodo ho salvato molte vite”. Il pm, che aveva chiesto le intercettazioni sulla base di testimonianze da lui definite “gravi”, sul fronte degli acquisti improvvidi porterà a giudizio cinque persone tra cui Torrisi e il primario. A quel processo si scoprì che i perfusionisti dipendenti, tra cui il cugino di Salvo Torrisi, un secondo cugino, spesso si allontanavano dalla sala operatoria lasciando a manovrare le macchine i volontari non autorizzati. Alcune testimonianze rilasciate in fase istruttoria avevano sottolineato che le firme delle presenze venivano falsificate, anche quelle del primario. In alcune cartelle i valori clinici riportati in sala operatoria, a proposito del paziente, “non erano compatibili con la sopravvivenza umana”. Numeri scritti da mani inesperte. Il professor Torrisi, in orario di servizio ospedaliero, “era dal barbiere”, altri colleghi e infermieri da Feltrinelli e Euronics, qui “a comprare un televisore”. I giudici, senza convocare molti dei teste dell’accusa, chiuderanno il processo con “il fatto non sussiste”. C’era di nuovo spazio per il direttore dimissionario: l’Azienda sanitaria gli riaprì il portone della Cardiochirurgia del Policlinico di Catania.

 

A volte ritornano

La sanità siciliana in dissesto aveva portato alla chiusura lenta e graduale, tra il 2018 e il 2019, dell’ospedale Vittorio Emanuele Ferrarotto, medici e perfusionisti erano stati trasferiti all’edificio 8 del Policlinico universitario. Nel 2020 la direzione generale pubblica il bando per un posto da direttore del reparto, rimasto scoperto per quattro anni, e lo scorso 23 luglio, con i titoli acquisiti, l’amico dichiarato del professor Torrisi se lo riprende. Il primo ottobre è di nuovo al suo posto, “e io sono ripiombata nei ricordi, nella sofferenza, in un clima ostile”. Nuovamente le intercettazioni di polizia avevano catturato un’istanza di rivalsa del primario costretto alle dimissioni cinque anni prima: “Non vuole il Signore che ‘sta cosa caschi nel dimenticatoio”.

Ancora Micol: “Oggi trovare nei corridoi e in sala operatoria il direttore che avevo denunciato è una fonte di tensione difficile da gestire. Diverse donne, e diversi dipendenti che ci difesero, sono ancora in corsia. Il clima è pesante, non dovremmo permettercelo in un reparto così delicato”. La perfusionista vittima di molestie si sente di nuovo isolata: “Il procedimento penale a carico di Torrisi sembra non avere fine, le archiviazioni del direttore hanno colpito tutto il personale, schierarsi una seconda volta non è cosa per tutti. È dura lavorare con chi fa finta che non sia successo nulla”. L’indifferenza si allarga dentro e fuori il Policlinico. “Il nostro assessore regionale, Ruggero Razza, sapeva tutto. Quando è uscito il bando per il posto da direttore, sono stata dal nuovo rettore dell’Università di Catania, Francesco Priolo. E lui mi ha detto: ‘Vi sono vicino, vi assicuro che non tornerà’. Il primo ottobre il direttore è tornato. Tutti sordi, sono tutti sordi”. Respira Micol: “Leggo dei convegni per i diritti delle donne, le battaglie nelle piazze, poi, quando si vede una violenza concreta ci si gira dall’altra parte. Le colleghe in sala operatoria mi schiacciano l’occhio come per dirmi ‘tieni duro’. Nei corridoi mi chiedono: ‘Come stai?’. Io sono in reparto per lavorare, mi alzo alle cinque e mezzo ogni mattina”.

Il direttore rientrato in reparto accoglie la rinnovata attenzione sui suoi processi, conclusi senza conseguenze, e su quelli di Torrisi, in corso, con rabbia. Dice: “Non è vero che non ho denunciato. Ho coinvolto la direttrice della scuola di formazione, Valeria Ilia Calvi. Ho coinvolto Corrado Tamburino, il capo dipartimento. Avrebbero dovuto sporgere denuncia, caso mai l’omissione l’hanno fatta loro. Nel mio ruolo, io non potevo mandare via nessuno. Ho chiesto al dottor Torrisi di presentare una lettera di dimissioni da docente, ma non spettava a me allontanarlo e ora mi chiedo perché mi vogliono tirare in ballo. Sì, ho fatto un’inchiesta interna, ho chiesto allo stesso coordinatore, davanti a testimoni, che cosa avesse fatto e lui mi ha giurato sui figli che erano tutte menzogne. Il professor Torrisi lo conosco da quando ero specializzando, appena laureato, e ho sempre visto una persona integra. Non è un amico fraterno, ma ci sentiamo per gli auguri e le condoglianze. Sarà il processo a dire se quelle accuse sono vere oppure no, la verità è che da quando sono tornato in reparto ho fatto crollare un castello di benefit che i cosiddetti denuncianti avevano ottenuto. Sono tornati a lavorare, i loro mariti a fare le guardie di notte”.

Insiste: “Che c’entro io? Fin qui sulla vicenda delle molestie nessuno mi ha chiamato, neppure come persona informata dei fatti. Sul presunto favoreggiamento non ho mai ricevuto un atto. E sulle questioni degli acquisti in ospedale, la procura era partita contestando la concussione, poi è diventata abuso d’ufficio e alla fine nulla. Non sono andato via dall’ospedale Ferrarotto per i procedimenti penali, ma perché avevo ricevuto un’offerta economicamente vantaggiosa da una struttura privata. E oggi torno per questioni di prestigio, in chiusura di carriera ho la possibilità di diventare professore universitario. Le intercettazioni in cui prometto rivalsa? Non le ho viste e i fatti dicono che i miei nemici continuano a lavorare così come facevano in precedenza. Prima del mio ritorno alla Cardiochirurgia del Policlinico gli interventi erano la metà e la lista d’attesa vuota”.

Micol, che insieme al marito nega alla radice questa ricostruzione dei fatti, dice: “Sono uscita di casa, a 19 anni, e mi sono trovata in mezzo a un branco di lupi. Non mi hanno consentito di studiare con serenità e adesso non mi consentono di lavorare con serenità. Mi fanno sentire nuovamente sbagliata, vorrei fermarmi qui”. Ora le lacrime bucano la resistenza. “Una donna, è la prassi, subisce ed è meglio che vada via. Io, invece, voglio continuare a lottare per quello che desidero fare. Non è giusto che debba andare via io”.

Una storia, tante storie

Micol è una storia di tante storie, una arrivata fino in fondo, fino al processo. Come quella di una studentessa dell’Università di Bari. La prima udienza si terrà il prossimo 2 dicembre. Tra il 2014 e il 2015 lei, iscritta a Giurisprudenza, avrebbe subito molestie. Ora è arrivato il rinvio a giudizio e la sospensione dall’ateneo per il professor Fabrizio Volpe, associato di Diritto civile, accusato di concussione e tentata violenza sessuale: il docente avrebbe chiesto prestazioni intime e soldi in cambio di un esame.

Manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne, contro il femminicidio, le violenze e le molestie  Roma, 25 novembre 2017 

In provincia di Bari nel 2020 viene aperta un’inchiesta penale dopo la denuncia di una studentessa di Scienze infermieristiche: “Durante il tirocinio un infermiere dell’ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti ha tentato di violentarmi in ascensore”, aveva raccontato la ragazza. A Latina, l’ultimo caso in ordine di tempo, la procura ha iscritto nel registro degli indagati un professore del polo pontino della Sapienza accusato da una sua allieva, aspirante infermiera, di aver subito attenzioni non richieste e non volute. Oltre e dietro di loro ci sono decine di racconti, segnalazioni, denunce, episodi di molestie sessuali consumati in accademia.

Università Magna Graecia, Catanzaro: “Un giorno mi sono messa un vestito, il responsabile dello studentato ha iniziato a guardarmi le gambe, a dirmi che ero bella, ad accarezzarmi le spalle. Mi ha baciato la mano e la fronte. E io avevo paura di reagire perché mi serviva un posto nell’alloggio e una tessera per mangiare alla mensa”.

Università della Calabria, Cosenza: “Eravamo in Dad, durante un esame il professore mi ha chiesto di mostrare le gambe e i piedi con la scusa di scovare bigliettini. Avevo i pantaloncini corti, mi ha detto di chiudere la porta, abbassare le serrande e fare l’esame seduta sul letto con le gambe incrociate”.

Università Sapienza di Roma: “C’è un uomo che entra nei gruppi WhatsApp, quelli in cui ci scambiamo gli appunti, salva i numeri delle ragazze e manda foto del suo pene, fa avances sessuali, chiede scatti”.

Università di Bologna: “Dopo la cena del corso di laurea un collega mi ha bloccato mani e piedi e ha abusato di me”.

Università Statale di Milano: “Fuori dall’aula il prof mi riprende: ‘La vedo stanca, ieri notte si sarà data da fare…'”.

Università di Torino: “Primo anno, il professore del Politecnico mi costringe più volte ad andare alla cattedra di fronte a tutta l’aula per fare da valletta con allusioni sessuali. Mentre ero girata, mi ha guardato il sedere, ha fatto apprezzamenti e tutta l’aula ha riso”.

Gli screenshot scorrono nelle storie di Instagram uno dopo l’altro: sono gli stralci di lettere, post, messaggi, chat, audio raccolti, solo negli ultimi mesi, da collettivi universitari e pagine studentesche e rimessi online, resi pubblici, per uscire dal vortice buio della violenza, del silenzio, della vergogna. Ne arrivano a centinaia, per ogni ateneo. Ogni volta che un’associazione, un gruppo, una studentessa chiede: “Vi sentite sicuri nella vostra università?”, “avete mai subito molestie?”, si scoperchia il vaso di Pandora. Gli abusi vanno dal catcalling alle battute sessiste, dagli apprezzamenti spinti alle mani sui corpi delle studentesse, dalle domande intime fino al revenge porn, la diffusione di fotografie e video privati. Avance verbali o violenze fisiche, non c’è una scala. Avviene tra pari o si nutre di ricatto quando c’è uno squilibrio di potere tra i molestatori e i molestati, più spesso le molestate. Sono, ma non solo, studentesse, dottorande, assegniste, tirocinanti, ricercatrici. Che ora hanno deciso di raccontare. È il #MeToo degli atenei italiani.

Giulia

“Violenza non è solo quando ti costringono a un rapporto. Le molestie hanno tante forme”, dice Giulia (la chiameremo così) che ha 24 anni e sta per laurearsi nell’Università della Calabria, a Cosenza. Tra le centinaia di messaggi raccolti sui social c’è anche il suo. “Una storia come tante, per qualcuno forse anche banale”. “Un prof del mio dipartimento mi ha fatto delle avance durante l’esame. Il colloquio si svolgeva come tante altre volte a porte chiuse, senza testimoni. Non si potrebbe fare un esame senza altre persone presenti, eppure continua ad accadere. In quelle occasioni il docente ha sguardi, atteggiamenti, battute che mettono a disagio. Al primo esame ha iniziato a fare considerazioni sulla mia persona: ‘Come sei intelligente, come sei bella, che bel vestito’. Fu leggero nelle sue espressioni, o forse io avevo una consapevolezza diversa rispetto a oggi. Mi dava fastidio, ma non mi sembrava granché. La seconda volta è stato peggio”. Ed è difficile darle torto.

“All’improvviso ha interrotto la mia esposizione: ‘Sei molto bella, sei fidanzata?’, mi ha chiesto. Ero imbarazzata, ma ho risposto lo stesso di no, era solo la verità. ‘Ti divertirai allora’, ha commentato, ‘avrai la fila. Mi posso mettere anch’io in fila con i tuoi pretendenti?’. Ho fatto un mezzo sorriso e ho provato a riprendere la discussione. Lui ha fatto il giro della cattedra e ha posato una mano sulla mia. Qualcuno potrà dire che non c’è nulla di grave, che non è un abuso, ma chi gli aveva detto di farlo?”. Giulia si sente perduta. “Non sapevo che fare, ho ritratto la mano, non riuscivo a dire nulla, ero impietrita. A quel punto ha capito, forse, che non poteva andare oltre e mi ha detto: ‘Stai tranquilla, continuiamo con l’esame’. Ma ero bloccata, mi aveva messo in difficoltà, non sapevo più come proseguire. Quando sono uscita dall’aula avevo una faccia… Le mie compagne pensavano mi avesse bocciato. A due di loro poi ho raccontato che cosa era successo”. Ma solo per rimanerne delusa. “Mi hanno detto: ‘Lascia perdere, ti ha dato un buon voto, ti vai a compromettere per una storia così?'”.

 

“Le consigliere di fiducia”

Negli atenei, le denunce per stalking, abusi, rispetto alla mole di messaggi digitali, sono pochissime. Lo raccontano i numeri delle segnalazioni arrivate alle consigliere o ai consiglieri di fiducia, le figure che all’interno delle università si occupano di intervenire in caso di molestie, come indicato da una risoluzione del Parlamento europeo del 1994. La loro dffusione si deve al Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (Cug), un organo reso obbligatorio per le pubbliche amministrazioni dalla Legge 183 del 2010. Di solito le consigliere, o i consiglieri, di fiducia sono figure esterne, per evitare legami e commistioni con il personale dell’ateneo. Sono avvocate o psicologhe in maggioranza, nominate con decreto del rettore, in carica per due o tre anni prorogabili quasi ovunque e un compenso che va dai 4.000 agli 8.000 euro l’anno. A oggi prevedono questo ruolo solo 37 atenei statali su 66, in alcuni si è in attesa di nomina, in tre casi sono uomini. Al Nord ce ne sono più che al Centro-Sud, in alcune regioni come la Sardegna e l’Abruzzo, ancora non esistono. Dove c’è un vuoto è proprio il Comitato unico di garanzia che si occupa di raccogliere e gestire le segnalazioni, un organo plurale con delegati del rettore, rappresentanti dei professori, del personale tecnico e amministrativo, degli studenti, ma tutti i membri sono interni all’ateneo.

Il primo approccio con il consigliere avviene di solito via mail, in qualche caso c’è un primo momento di ricevimento una volta a settimana o un numero di telefono. Segue un appuntamento in una saletta dell’ateneo che possa garantire la privacy, in un ufficio esterno, addirittura in un bar, in un giardino o a casa della vittima, per farla sentire a suo agio. Negli ultimi due anni, quelli della pandemia, gli incontri sono avvenuti per lo più in videocall, ora sono misti.

Francesca Torelli, consigliera esperta, ricopre questo ruolo nelle Università di Venezia, Verona, Brescia, alla Politecnica delle Marche e in passato anche alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Spiega: “La nostra funzione è quella di prendere in carico e gestire le segnalazioni che ci arrivano. Il primo obiettivo è far cessare la situazione di molestia e lo si fa attraverso una procedura informale. In pratica, dopo colloqui estremamente riservati tra la vittima e la consigliera di fiducia, ci si rivolge all’attore della molestia invitandolo a cessare qualsiasi comportamento offensivo. Di solito la vicenda finisce lì. La persona offesa può sempre decidere che non sia sufficiente ristabilire un equilibrio e allora si può andare avanti con un provvedimento formale per dare un segnale a un’intera comunità o perché si ha il sospetto che le molestie coinvolgano altre vittime”.  

La procedura informale può apparire una scorciatoia, una soluzione di basso profilo e di cui non resta alcuna traccia. “In realtà è comunque una forma di tutela”, dice Torelli, “perché nel caso in cui si debba aprire una procedura formale, serve un nome e cognome, diverse persone verranno a conoscenza di quanto accaduto, la vittima dovrà riportare l’accaduto davanti al collegio di disciplina, il procedimento può durare alcuni mesi e non sempre questo è il desiderio della vittima”. I fenomeni più comuni, elenca la consigliera, “sono le battute, le allusioni a connotazione sessuale”. Poi ci sono i corteggiamenti serrati: “C’è poca percezione del fastidio e della violenza psicologica che può provocare e quando una persona non si rende conto del comportamento messo in atto è difficile che si contenga da solo”. Ancora: gli inviti a cena o a vedersi fuori dall’università per parlare. Fino alle richieste a collaboratori e collaboratrici di vestirsi scollati, farsi palpeggiare, pretendere baci”. Negli ultimi anni alle porte dei consiglieri di fiducia sono stati in pochi. “Mi arrivano otto, dieci segnalazioni l’anno, metà da studentesse e metà da personale”, spiega Torelli, “il Covid ha sospeso i racconti delle molestie fisiche, ma restano quelle verbali e la sempre più diffusa molestia via WhatsApp. Ci si spinge in dichiarazioni e richieste nonostante resti una traccia scritta, una prova”.

Esistono pochi casi o si denuncia troppo poco? Per Francesca Torelli “non possono esserci luoghi con numeri così alti di frequentatori in cui non ci sia nessuno che abbia comportamenti molesti. Quando sento dire da qualche ateneo ‘noi non abbiamo la consigliera di fiducia perché non ci serve’, penso che ci sia un grande equivoco: dire che i casi non sono emersi è completamente diverso dal dire che non esistono. Se mi chiede se, tuttavia, oggi c’è ancora la tendenza a insabbiare i casi, le direi di no, o comunque molto meno di prima, a meno che non siano coinvolte persone che occupano ruoli apicali nell’ateneo”.

L’Università Ca’ Foscari, Venezia 

Le mancate denunce

“I casi”, pensa Torelli, “non vengono segnalati perché la vittima di solito adotta la strategia più facile che si può riassumere in due parole: sopportare e dimenticare. Gli studenti e le studentesse, i dottorandi e le dottorande, e ancor più i laureandi e le laureande, hanno un orizzonte temporale limitato all’interno dell’università e quindi imboccano la via che può sembrare più facile: ‘Sopporto tutto perché tanto il prof è intoccabile, tra sei mesi mi laureo e chiudo questo capitolo della mia vita’”. Lo confermano i rettori. “Le storie di molestie emerse sui social sono molte di più di quelle segnalate nei canali istituzionali”. Lo dice la vicerettrice del Politecnico di Torino, Claudia De Giorgi. E, purtroppo, avverte il rettore Nicola Leone di Unical, “l’università nulla può se la segnalazione non viene effettuata agli organi preposti”.

A spiegare il perché della “mancata denuncia” sono le ragazze: “A volte la coscienza di quello che si sta passando arriva tempo dopo ed è sempre difficile raccontare molestie e abusi. Ci si vergogna, si ha paura delle conseguenze”, argomenta Cristina Specchi di Link, sindacato studentesco. Per questo alcuni codici anti-molestie varati o rivisti negli ultimi mesi, come quello dell’Università di Bologna, non mettono un tetto limite al tempo trascorso tra la molestia e la denuncia. “Tante ragazze”, aggiunge Luisa del collettivo cosentino Fem.In., “ci hanno mandato le loro storie su Instagram parlandone per la prima volta. Uno spazio sicuro, in cui nessuno avrebbe giudicato o messo in dubbio la veridicità dei loro racconti”. Il singolo racconto, però, aiuta l’emersione del fenomeno. “Bisogna dire che quando qualcuna si muove, decide di far uscire dal buio una storia di molestie, le segnalazioni aumentano”, spiega ancora la consigliera Torelli. “È importante raccontare, anche senza testimoni, anche quando si pensa di essere sole perché potrebbe essere accaduto ad altri. E grazie a questo si hanno più chance di avere ragione sul molestatore perché da una prima segnalazione la consigliera può capire se ci sono altre potenziali vittime, queste vengono raggiunte, si parla, si raccolgono nuove testimonianze che diventano una prova”.

La biblioteca dell’Università Milano-Bicocca 

A Milano Bicocca negli ultimi tre anni ci sono stati 12 episodi: nel 2019 si è aperta la procedura informale in tre casi “trattandosi di situazioni molto circoscritte e inerenti un singolo episodio”, spiega la consigliera di fiducia. L’anno dopo, stessa procedura per due casi di molestie via WhatsApp. Quest’anno ci sono state tre denunce, della stessa persona, per cui è stato fornito un supporto. All’Università Ca’ Foscari di Venezia risultano 4 casi nel 2019, 5 quest’anno: nove in tre stagioni di cui otto a danno di studentesse e una di una professoressa associata. In un caso c’è stata la ricerca di un contatto fisico, in cinque un corteggiamento insistente dopo un rifiuto, in altri tre allusioni, battute, gesti che creano un ambiente ostile, umiliante, degradante. Il contrario di quello che dovrebbe essere un luogo di formazione, studio, ricerca, lavoro. Allo Iuav di Venezia, ateneo di Architettura, nel 2017 un gruppo di iscritti aveva contattato in forma anonima il Senato degli studenti per segnalare il comportamento scorretto di un docente nei confronti di alcune ragazze: a loro erano riservate maggiori revisioni rispetto agli studenti e l’attenzione variava a seconda del vestiario. Erano stati segnalati comportamenti espliciti e scambi di messaggi censurabili tra altre studentesse e il professore. Si era mosso il rettore e poi il direttore di Dipartimento, da allora non ci sono stati più episodi. All’Università Federico II di Napoli i casi emersi sono stati tre l’anno. “Nel 2021 abbiamo provveduto a un ammonimento scritto, un ammonimento verbale, una consulenza con studenti vittime di stalking online”, spiega la consigliera Cristina Arcidiacono.

Fiorenza Taricone, dell’Università di Cassino, racconta: “Le molestie, fisiche, verbali, psicologiche, nell’ateneo sono striscianti e non sempre individuate come tali sia dai soggetti responsabili, sia da parte delle persone cui sono indirizzate. Le molestie non conoscono gerarchie, né livelli culturali, sono trasversali a tutte le mentalità perché fanno parte di una trama culturale che rende il Paese arretrato. I provvedimenti, a seconda delle persone coinvolte, si sono resi necessari in varie forme: richiami da parte di presidi di facoltà, di direttori di dipartimento, di organismi paritari e di garanzia, audizione e tentativi di conciliazione, trasferimenti, allontanamenti, sostituzione di docenti per l’obiettività della valutazione di esami e percorsi didattici”. In alcune università si preferisce mantenere riservate informazioni così sensibili per tutelare le sopravvissute di violenza. Altrove si sono aperte ricerche più approfondite. L’Ateneo di Parma, tramite il Cirs (Centro interdipartimentale ricerca sociale), sta svolgendo un’indagine sul tema delle molestie. A Foggia, dove la consigliera di fiducia è di recente nomina, è stato redatto un questionario che sarà somministrato nel corso dell’anno accademico dopo il ritorno alle lezioni frontali.

Poi ci sono le iniziative di sensibilizzazione, in crescita in tutti gli atenei: seminari, dibattiti, gruppi di lavoro e formazione, sportelli di supporto psicologico come quello alla Scuola Imt di Lucca, a cui allieve e allievi possono accedere tramite il sistema sanitario nazionale. Da Bari a Bologna, passando per Roma, sono nati canali di ascolto contro gli abusi di genere autogestiti o legati ai centri antiviolenza. Anche il Cnsu, il Consiglio nazionale degli studenti universitari, ha approvato un documento che definisce anzitutto cosa sono le molestie morali e sessuali (comprese quelle online, subite durante la Didattica a distanza) e chiede al ministero dell’Università e della Ricerca di introdurre in tutti gli atenei i regolamenti di comportamento antiviolenza e di nominare in ogni ateneo pubblico o privato un consigliere di fiducia.

Le mani al collo

L’associazione Trasparenza e merito, che da due anni si occupa di concorsi universitari contestati, ha raccolto alcune vicende di donne molestate e ricattate da docenti in nome di un voto all’esame, un posto da ricercatrice. Si possono leggere nel libro “Malauniversità” di Giambattista Scirè (Chiarelettere). “Un professore di Diritto si è approfittato della sua posizione per molestarmi e, poi, la responsabilità è stata addossata a me. Sono stata etichettata come un’adescatrice. La mia carriera universitaria si è interrotta”. Ancora: “Sono una professoressa associata e sono oggetto di molestie verbali continue da parte di un gruppo di colleghi, tra cui un professore ordinario. Si muovono e agiscono in branco: usano toni perentori per ridurmi al silenzio, mimano il mio modo di muovermi davanti agli studenti. Nessuno mi ha mai difesa o ha preso provvedimenti, eppure ho denunciato al dipartimento quanto accade”.

Linda è approdata all’Università di Bologna dopo “cento concorsi” persi. “Avevo vent’anni e cominciai a fare l’assistente per un docente”. Era circondato, lui, da “una corte fitta di collaboratori, quindici persone. Si occupavamo di tutto, come in una catena di montaggio. Il professore veniva una volta ogni dieci giorni, viveva in un’altra città. Mi selezionò come gli altri: i maschi per la servitù, le donne per la bellezza. Mi aveva incastrato lodando le mie doti intellettuali, ma era solo per mettermi le mani addosso. Era un modus che aveva con tutte, non una in particolare. Dalle studentesse alle segretarie, fino alle dottorande. Escludeva solo le colleghe, troppo vecchie e per la maggior parte sposate con altri docenti. Io svicolavo e basta. Noi donne eravamo terreno di caccia, in primis per il docente, che godeva dello ius primae noctis. E poi gli assistenti maschi. Se non cedevi, diventavi ingombrante e relegata alle mansioni terra terra. Una sola volta ricordo di aver avuto davvero paura di quel docente. Cercò l’approccio e lo scansai. Allora, all’improvviso, mi mise le mani sul collo come per strozzarmi. Strinse forte la presa e per un minuto ebbi davvero paura. Poi si mise a ridere e se ne andò. Era un avvertimento? Decisi che era ora di cambiare docente”. Molte donne di quel corso, ricorda Linda, “poco alla volta abbandonavano il campo ai giovani studiosi maschi”. Chi è andata a insegnare a scuola, chi fa la segretaria in qualche amministrazione.

Neolaureati in Piazza Maggiore a Bologna 

“La selezione di genere nell’accademia è più che palese. Un altro prof mise in atto un corteggiamento ambiguo ma serrato. Non fu mai molestia sessuale esplicita, ma dopo mesi di lusinghe mi fece capire che mi avrebbe potuto aiutare in un futuro concorso se gli avessi dato una chance. Ovviamente, tutti questi maschi erano sposati. Quella volta gli urlai addosso e non lo incontrai mai più. Si presentava con modi aristocratici, avevo sperato che il suo interesse fosse davvero per le mie capacità intellettuali”.

“Altri due docenti, nel corso degli anni, mi fecero avance che furono come coltellate: di uno mi fidavo molto, era vecchissimo, pensavo di non avere nulla da temere. Invece, a un tratto mi chiese un bacio in cambio di una lettera di presentazione per un concorso all’estero. Un altro mi mise profondamente a disagio in un contesto congressuale in hotel, e fu come cadere da un precipizio. Erano persone che avevano la mia stima, che consideravo maestri. Da quel momento cominciai a collaborare quasi solo con donne. Che tutto questo succedesse dentro un dipartimento, un ateneo, un luogo di presunta cultura, mi sprofondava in un buco di solitudine immenso: era quello il loro unico metro di valore delle donne”.

“Una volta mi innamorai di un compagno di studi durante gli anni dell’università. Mi chiese sempre più insistentemente di presentargli il docente con cui collaboravo. In men che non si dica, la loro omosocialità prevalse. Inoltre, io non cedevo alle avance del docente che si andavano piano piano palesando. Pensavo che il mio fidanzato mi avrebbe difesa, invece, in una sorta di patto reciproco, strinsero amicizia. Fu preso anche lui come assistente e subito dopo mi lasciò e si mise con un’altra. La persona che amavo mi aveva tradita e, a ripensarci oggi, mi aveva solo usata per arrivare a prendere il mio posto”.

Università La Sapienza, Roma 

 

Il confronto internazionale

In Italia le ricerche affidabili sono rare, ma ci sono anche pochi studi, numeri, dati.

Un primo confronto internazionale arriva dal libro “Molestie sessuali: che fare?”, il risultato di una ricerca pubblicata nel 2019 e promossa dal Comitato unico di garanzia dell’Università di Trieste, dove dal 2017 è stata promossa una Rete del benessere sul tema.

Nel testo viene citata un’inchiesta del 2017 che ha coinvolto ventisette università degli Stati Uniti: l’11,7 per cento degli studenti e delle studentesse intervistati aveva subito un’aggressione sessuale (incluso lo stupro) dal momento in cui si era iscritto. Le aggressioni erano più frequenti tra le studentesse e tra coloro che si identificavano nell’universo Lgbt (acronimo che indica lesbiche, gay, bisessuali e trasgender). Tra gli “undergraduate”, gli studenti del primo ciclo dell’istruzione superiore, aveva subito violenza il 23 per cento delle ragazze, il 24 per cento di chi si identificava come Lgbt e il 5 per cento dei ragazzi. Le molestie sessuali erano ancora più frequenti e riguardavano il 47,7 per cento degli intervistati, ma ben il 61,9 per cento tra le studentesse undergraduate. Gli aggressori erano principalmente studenti, tuttavia, tra le studentesse laureate, il 22,4 per cento era stato molestato da un appartenente al corpo docente.

Lo scorso anno, con l’hashtag #ScienceToo, è stato pubblicato il rapporto Sexual harassment of women dalla National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine. I dati dicono che il 58 per cento delle donne statunitensi, prendendo in considerazione tutte le facoltà, sperimenta molestie di tipo sessuale e la maggior parte avviene nelle facoltà di Scienze, Ingegneria e Medicina. L’Università del Kent ha organizzato un recente studio dal titolo “Comprensione dell’aggressività sessuale negli studenti universitari maschi del Regno Unito: una valutazione empirica della prevalenza e dei fattori di rischio psicologico”. Al questionario, citato dal Guardian, erano sottoposti, stavolta, gli studenti maschi. Dei 554 intervistati, in 63 hanno riferito di aver commesso 251 aggressioni sessuali, stupri e altri atti coercitivi negli ultimi due anni.

In Francia, nel 2015, l’inchiesta “Violence and Gender Relations (Virage)” ha dedicato un focus a quattro università (University Paris 1-Panthéon-Sorbonne, University Paris-Diderot e Institut de Physique du globe de Paris, Università di Strasburgo e Università della Bretagna occidentale) per comprendere proprio l’entità della violenza e della discriminazione in accademia. Dei 6.648 studenti che hanno risposto al questionario online, 1.882 hanno riferito di aver subito almeno un atto di violenza (psicologica, fisica o sessuale) nei dodici mesi precedenti lo studio: il 28,3 per cento. Un terzo delle donne e un quarto degli uomini hanno raccontato almeno un episodio. L’indagine ha anche mostrato che la natura della violenza subita non è la stessa a seconda del genere: le studentesse sono più colpite da commenti e atteggiamenti di natura sessuale, mentre gli studenti menzionano più frequentemente atti di violenza psicologica. La violenza subita ha avuto effetti dannosi sui percorsi di carriera degli studenti con cambi di percorsi di studi, di atenei, di città. Anche l’inchiesta francese racconta che gli studenti colpiti parlano dell’accaduto con amici o parenti, senza tuttavia avviare procedimenti all’interno degli istituti anche quando i fatti dichiarati sono ritenuti gravi.

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