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Gli affari di Meloniland, l’Albania “italiana” che aspetta i migranti

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Shengjin, Albania – Nei bagni della trattoria Meloni risuonano le note di Nino D’Angelo, “Celebrità”: “Mammà tu nun ‘o ssaie, no, nun o può sapè”. Alle pareti un terribile campionario di irriverenti fotomontaggi trash che ritraggono tutti i grandi della Terra, compreso papa Francesco, seduti sulla tazza. C’è anche una falce e martello, probabilmente per indicare che quello è il posto consono per il simbolo, un tempo onnipresente, dell’ormai lontano regime di Enver Hoxha. La nostra premier, invece, è celebrata in tutte le sue smorfie, tratte dalle foto dei giornali italiani, non certo in bagno ma altrove, nel grande open space del ristorante, affollato di famiglie albanesi per il pranzo fuori porta della domenica.

«Siamo qui anche perché ci incuriosisce lei, una donna diventata così potente», dicono tre ragazze arrivate da Tirana. A pochi metri dall’uscita del “mangificio” di tendenza c’è il porto, dove due guardiani annoiati gestiscono il via vai di poliziotti e operai che lo anima. È lì che da mesi si aspettano come un miraggio i primi migranti beffati dall’accordo Italia-Albania, che anziché farli arrivare in Europa, li dirotta in questo non luogo internazionale di cui nessuno si assume la sovranità.

«Noi non c’entriamo niente, è territorio italiano», continua a smarcarsi candido il premier Edi Rama. In effetti sopra il bunker appena ultimato nel porto — c’è ancora un camion all’esterno di un’impresa edile di Villanuova sul Clisi, in provincia di Brescia — svetta il tricolore italiano. Citofoniamo e ci apre un agente veneto. Il capoposto è un funzionario della polizia di Stato che ci rimanda alla prefettura di Roma. Poco più avanti, seduto per terra, c’è un ragazzo solo che consuma il suo caffè domenicale seduto per terra. Davanti, sulla banchina, un paio di lavoratori albanesi intenti al rimessaggio di un peschereccio. In un chioschetto, qualche metro più in là, altri poliziotti italiani fraternizzano con un collega albanese. Poi si organizzano per i turni: «Allora, io monto alle sette, poi tocca a te… Qui invece di pagarci di più ci allungano le ore…».

Chi arriva qui ottiene cento euro all’ora in più rispetto allo stipendio base, e molti sgomitano. Fino a quando non arrivano i primi stranieri (e tutti dicono che è questione di giorni) non è così male stare a Shengjin, località turistica che in italiano si chiamerebbe (e si chiamava, all’epoca della Serenissima) San Giovanni Medua.Il quartier generale, dove è parcheggiata una stazione mobile dei carabinieri, è un hotel executive a cinque stelle in centro, in parte popolato da profughi afghani in virtù di un altro accordo internazionale siglato con gli Stati Uniti dall’intraprendente Rama. Così all’arrivo l’atmosfera è straniante: le salmodie del muezzin, le auto blu italiane e albanesi che vanno e vengono e una riproduzione della statua della Libertà al centro del piazzale. Un giornalista albanese cerca di entrare, gli dicono che non può. Un cliente italiano invece sì. Ma un impettito ragazzo della sicurezza locale con microfono ad archetto lo segue fino alla reception, per verificare che davvero dorma lì.

Shenjin è tutto un festival tricolore. Gli hotel si chiamano “Rafaelo” — il resort più importante, che raddoppia, grazie a una specie di convenzione con il ministero dell’Interno, per i prossimi mesi — o “Mille Amici”, “Colombo”. Strutture di lusso accanto a case in degrado o abbandonate, cumuli di immondizia e strade sterrate, bambini scalzi e centri medici. E l’Italia come futuro. Qualche settimana fa un gruppo di attivisti è salito su una terrazza del porto e ha tirato giù uno striscione. C’era scritto: «7 Aprile 1939 — L’Albania è italiana — 5 Novembre 2023». Poi hanno sparato con le casse acustiche la registrazione audio dell’annuncio dell’invasione dell’Albania da parte del regime fascista, il 7 Aprile 1939. «Il mito della “storica amicizia” italo-albanese altro non è che neocolonialismo», dice Alexia Malaj, formatasi a Firenze e ora ricercatrice in sviluppo economico a Southahmpton.

Naturalmente, però, “Meloniland”, con la sua promessa di flussi in arrivo — non si sa quanto reali, «viste le limitazioni agli ingressi della Corte giustizia europea», osserva Frano Kulli, editore di Lezhe — piace a Marinel Kuciai, che dopo aver lavorato per tre anni in cascina ad Abbiategrasso, si è aperto un minimarket proprio dalle parti del porto: «I poliziotti vengono tutti i giorni perché con me che parlo italiano si trovano bene. Gli immigrati che arriveranno qui? Li capiamo, ci siamo passati anche noi…». A una ventina di chilometri da Shengjiin, in un’area di 70mila metri quadrati su una collina, c’è il centro di Ghadaj, l’enorme blocco di cemento, reti metallici e filo spinato dove saranno trattenuti i richiedenti asilo, per un numero massimo di 880. I poliziotti stanno lì come nella fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati. «Qui non c’è niente, per mangiare e per tutto bisogna andare a Shengjin», dicono i due agenti al varco. Le camere hanno docce e condizionatori, c’è una mensa e un’area dove i credenti possono pregare. Ma l’impressione è di stare in un carcere. Lo ammette anche Anden, che ci ha lavorato come guardiano per quarantuno giorni: «Mi ricordano le celle dove sono stato in Italia per cinque anni», racconta seduto a bere birra con gli amici al tavolino del villaggio, uno dei riti tipicamente albanesi che la polizia penitenziaria ha persino inserito — «mai bere il caffè al bancone» perché lì non si usa, così come non si importunano le donne — in un vademecum distribuito a quarantacinque agenti che sono partiti ad agosto per Ghadaj, dove dovrebbero sorvegliare i migranti che commettono reati all’interno del cento. A loro è destinata la struttura di detenzione vero e proprio, pensata per venti migranti da punire. Se arriveranno.

 

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