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Più che uno stop, uno schiaffo sull’autonomia differenziata. La Corte costituzionale, che ha chiuso in serata la camera di consiglio durata due giorni sui rilievi posti dai ricorsi delle regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge, ma – come ci si attendeva – smonta alcuni dei nodi principali della legge Calderoli e “ravvisa l’incostituzionalità” di sette profili di legge. La sentenza appena comunicata dalla Corte riserva dunque un esito ben più pesante di quanto temesse la Lega. Le motivazioni saranno depositate entro le prossime settimane, ma in due dense pagine i giudici spiegano in sintesi i contenuti della scelta.
“Spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle ricorrenti, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge – si spiega nella premessa – La Corte resta competente a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione, qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale”.
Sono aspetti centrali della legge quelli che appaiono demoliti o drasticamente penalizzati dall’analisi della Consulta. In sintesi: “La possibilità che l’intesa tra lo Stato e la regione e la successiva legge di differenziazione trasferiscano materie o ambiti di materie, laddove la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del richiamato principio di sussidiarietà”; il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei cosiddetti Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, “concernenti i diritti civili e sociali priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento”. E ancora: “La previsione che sia un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) a determinare l’aggiornamento dei Lep”.
In altri termini, i Lep non possono essere determinati da un Dpcm, né sembra che avrebbe mai potuto raggiungere l’obiettivo l’attivismo del comitato voluto dal ministro Calderoli per fissare, in così breve tempo, da parte di giuristi ed esperti, i costi standard per servizi e diritti che aspettavano da venti anni di essere definiti.
Ma il comunicato della Consulta passa a esaminare gli altri profili di incostituzionalità accolti nella loro pronuncia: “La possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito; in base a tale previsione, potrebbero essere premiate proprio le regioni inefficienti, che – dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite – non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni”.
La Corte poi rimette al centro il principio di sussidiarietà. E sottolinea che la distribuzione delle funzioni legislativa e amministrative tra Stato e Regioni “non” deve “corrispondere all’esigenza di un riparto di poteri tra i diversi segmenti del sistema politico” ma deve avvenire “in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione”. È, dunque, “il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni”.
Poiché il fine dell’autonomia non è certo di aderire alle pretese delle Regioni ma “deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini”.
Specie in un Paese gravato dall’aumento dei divari.