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Non solo le botte e i vandalismi: spinte, schiaffi, cazzotti e calci, abbinati anche da porte spaccate e attrezzature mediche buttate in terra. La violenza di pazienti o loro accompagnatori dentro ospedali e strutture sanitarie spesso è verbale. Si tratta di un flusso continuo. Offese pesanti e minacce sono all’ordine del giorno. Spesso vengono indirizzate agli infermieri, cioè i professionisti che stanno più a contatto con i malati nei reparti nelle sale di attesa degli ambulatori: per chi lavora in certi settori, gli insulti sono pane quotidiano.
Una ricerca appena pubblicata fa comprendere la portata del fenomeno. Il 32,3% degli infermieri, cioè quasi 130 mila persone, dichiara di aver subito un episodio di violenza solo nell’ultimo anno. I reparti più colpiti sono stati le medicine, i pronto soccorso e le rianimazioni. Il dato di coloro che ogni dodici mesi segnalano all’Inail un infortunio sul lavoro legato appunto a una violenza è molto più basso, cioè circa 5 mila.
Tre quarti delle vittime sono donne e nel 70% dei casi si tratta di violenza verbale. Il 30% delle volte invece c’è stato anche il contatto fisico. A realizzare lo studio promosso dall’Università di Genova sono stati otto atenei. Ed è stato impiegato un ampio campione di infermieri, quasi 6 mila persone.
A volte la violenza esplode contro le stesse strutture. Lunedì notte, ad esempio, all’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale del Mare di Napoli, un uomo ha sferrato calci alla porta di ingresso perché pretendeva di entrare. È stato denunciato. «Come dimostra il lavoro scientifico, ci sono innumerevoli situazioni che aumentano la percezione di pericolo, alla cui base c’è sicuramente la carenza di personale che, proprio da questa ricerca, emerge in modo chiaro», dice Barbara Mangiacavalli, la presidente della Federazione degli infermieri.
Spesso, come dicono i dati Inail, si preferisce non denunciare e si cerca di sopportare lo stress provocato dalle violenze che per qualcuno, ormai, fanno parte del lavoro. Sono infatti solo il 54% coloro che hanno segnalato gli episodi di offese o aggressioni. Circa i due terzi di chi ha taciuto ha ritenuto che la violenza fosse legata alle condizioni dell’assistito e circa il 19% pensa, appunto, che il rischio sia una caratteristica dell’impiego. Il 20% dei professionisti non hanno avvistato neanche la loro azienda perché erano convinti che tanto non avrebbero ricevuto risposta.
Ma qual è l’identikit degli aggressori? Intanto sono più numerosi gli uomini, ma non di tanto visto che rappresentano il 52%. Circa il 25% ha tra i 46 e i 55 anni, il 21% tra i 36 e i 45. «Gli infermieri conoscono i tratti e le caratteristiche di un potenziale comportamento di aggressione — spiega la coordinatrice dello studio, Annamaria Bagnasco — Tuttavia, per varie ragioni, non riescono a intercettare e prevenire questi episodi. E una delle concause è la comunicazione inadeguata tra il personale e l’assistito, o il suo l’accompagnatore».
L’infermiere / “Io, preso a calci ma voglio restare in prima linea”
Andrea Zanella, 43 anni, fa l’infermiere ed è rimasto a casa per due mesi a casa per un calcio.
Cosa è successo?
“Un paziente qui al pronto soccorso di Varese mi ha colpito al collo e mi ha spostato una vertebra”.
Le è capitato spesso di essere aggredito?
“Verbalmente molte volte, poi ci sono stati spintoni di parenti. In due casi ho subito un’aggressione, con esiti pesanti”.
Perché quel paziente l’ha colpita?
“Era un ragazzo in stato di agitazione, probabilmente aveva preso stupefacenti. Ha cercato di colpirmi più volte al viso e al corpo. In una situazione del genere vorresti reagire ma io, ovviamente, non l’ho fatto. Ho solo cercato di fermarlo. Si è divincolato e mi ha dato calcio. Ho avuto conseguenze serie”.
Dopo quanto successo ha chiesto di farsi spostare di reparto?
“Non ci penso nemmeno. Lavoro da 17 anni al pronto soccorso e so che queste cose possono succedere. Non sono accettabili ma capitano”.
L’infermiera / “Stress da triage, ricevo minacce ogni giorno”
Non un’aggressione verbale all’anno. Ma una al giorno. Capita se stai al triage del pronto soccorso, come Martina Bianchi, 36 anni, che lavora al Torregalli di Firenze.
Cosa le dicono?
“Frasi di vario tipo: si va dalle offese personali alle minacce. Dove sto io, a ricevere i pazienti quando arrivano e poi di fronte ai parenti in attesa, siamo esposti all’ansia e alla paura dei familiari”.
Cosa fa in caso di aggressione verbale?
“Il problema è che spesso se qualcuno si innervosisce può fomentare anche gli altri. Cerchiamo di calmarli, altrimenti avvertiamo i colleghi e se la situazione è ingestibile, chiamiamo la vigilanza”.
Ha fatto mai denunce?
“No, ma questi problemi fanno così parte del lavoro che la nostra Asl ha creato una procedura per segnalarli all’interno. Ne parliamo tra noi e ci serve a sopportare tutto meglio, a ridurre i danni da stress. Siamo delle persone, non siamo eroi”.
Davvero ogni giorno c’è chi vi offende?
“Anche più spesso, diciamo una volta per turno”.