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Achille Occhetto: “A 85 anni non cedo all’amarcord. È l’ora dell’ecosocialismo”

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L’ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto, compie 86 anni tra dieci giorni. Oggi esce il suo ultimo libro, Perché non basta dirsi democratici, Guerini e associati, che ha il passo del manifesto politico. Un invito alla sinistra a ripartire dall’ecosocialismo. «È un saggio di filosofia sociale, una risposta alla crisi del rapporto tra politica e cittadini», precisa con la pipa in mano. «Ma è anche un lascito di speranza, la mia elaborazione del lutto, un testamento spirituale». Lo presenterà con Enrico Letta a Roma, e con Pierluigi Bersani, Romano Prodi ed Elly Schlein a Bologna.

Perché lo definisce un testamento spirituale?
“I testamenti non si fanno solo in punto di morte. E io a 85 anni mi sento a metà del cammino”.

Qual è invece il lutto da elaborare?
“La fine del socialismo reale. Sia nelle vicende personali che nella storia non è lecito voltare pagina senza avere fatto i conti con quanto accaduto”.

Come le sembra il dibattito politico italiano?
“Imprigionato in un eterno presente e afflitto da un desolante politicismo”.

I partiti sono in crisi.
“Sì, ma pensano di uscirne attorcigliandosi in sterili discussioni di mera ingegneria istituzionale. Se non riemergono le grandi famiglie culturali anche il proporzionale e il maggioritario rimarranno gusci vuoti”.

Cosa manca alla sinistra?
“Pensieri più lunghi, un orizzonte culturale. Non basta dire “torniamo sul territorio, occupandoci degli ultimi”, bisogna anche avere le parole per farlo”.

L’identità va ridefinita?
“Sì, radicalmente. Bisogna rimettere in campo la battaglia delle idee. Ed è meglio perdere con le proprie che vincere con quelle degli altri”.

Che senso ha parlare di socialismo nel 2022?
“Ma io non propongo affatto un’operazione amarcord. Però gli ideali solo in parte realizzati dal socialismo democratico, e affossati con il crollo del socialismo reale, mantengono ancora un loro valore oggi come ebbe a dire Norberto Bobbio con la caduta del Muro. Il socialismo può rinascere in forme nuove nei panni dell’ecosocialismo”.

Perché non lo chiama semplicemente socialismo?
“Perché collocare in un’unica prospettiva ecologia e società sarà il grande compito politico e ideale dei prossimi anni”

È questo il compito della sinistra?
“Sì, anche se non vedo ancora in campo forze politiche e movimenti che facciano comprendere che temi epocali, come quelli della salvezza del pianeta, delle migrazioni bibliche, del proliferare delle guerre, della insufficiente distribuzione dei vaccini nel sud del mondo, sono il frutto avvelenato delle politiche di disuguaglianza globale”.

Perché sente l’urgenza di dire la sua?
“Questo libro è tante cose, tra cui un lascito di speranze alle nuove generazioni. E quali altre urgenze abbiamo di fronte se non la questione ecologica e quella sociale? Vanno coniugate”.

La parola socialismo può scaldare il cuore di un giovane?
“Non so se le generazioni future chiameranno questa narrazione socialismo. Quel che conta è che chi si sente erede di quella tradizione, e voglia lanciare un messaggio ai giovani, sappia riallacciare il discorso tra passato, presente e futuro”.

Non sono occhiali vecchi?
“Il socialismo rimane una forma di pensiero e quindi una chiave di interpretazione della realtà di cui abbiamo urgente bisogno se non vogliamo rimanere schiacciati nelle logiche della globalizzazione e del dominio dei padroni del calcolo e degli algoritmi. Quindi va profondamente ridefinito, come faccio nel mio saggio”.

Insomma, la sinistra si salva solo con una visione radicale?
“Sì, senza una cultura politica di base non ci possono essere le premesse stesse della politica. La sinistra deve rinnovarsi. Ma conservando il meglio del suo passato. Mi viene in mente l’Aufheben di Hegel: inverare il meglio, superando conservando”.

Cosa salverebbe?
“Il movimento operaio ha fatto delle lotte che hanno prodotto un cambiamento del capitalismo, modificando in meglio la vita dei lavoratori”.

Da dove comincerebbe?
“Dall’assunto che se in una democrazia la libertà non coincide con l’uguaglianza di tutti, allora non basta dirsi democratici”.

E quali sono i valori irrinunciabili?
“Il mondialismo, i problemi non si risolvono nel proprio orticello. La centralità del valore umano e sociale del lavoro. La cooperazione al posto della competizione selvaggia”.

La sinistra è stata troppo morbida verso i guasti della globalizzazione?
“Sì, l’ha subita. Bisogna battersi per una società altra, riformulando la contraddizione fondamentale tra capitale e lavoro all’interno di una visione più ampia”.

Ma ci sono oggi partiti in grado di affrontare questa sfida?
“Le forze motrici del cambiamento si trovano anche al di là dei partiti tradizionali, nella consapevolezza che il duplice movimento della modernità produce nuove povertà”.

Oggi la sinistra si dice al massimo riformista.
Riformismo è una parola inflazionata, come libertà”.

Perché?
“Perché contiene al suo interno tutto e il contrario di tutto. La cosa essenziale per un riformismo autentico è che i piccoli passi non siano in contrasto con gli obiettivi di fondo, perciò s’impone una critica di fondo all’attuale modello di sviluppo”

Come lo migliorerebbe?
“Con una rivoluzione culturale. Va rimesso in discussione il concetto stesso di crescita. Dietro l’aumento del Pil si nascondono gli invisibili, le diseguaglianze, i poveri, le baraccopoli, i quartieri fatiscenti nei punti alti della modernità”.

Qui la sinistra si vede poco.
“È rimasta abbacinata dal luccichio del moderno senza vedere i frutti velenosi della modernità. I diritti civili sono sacrosanti, ma quelli sociali sono stati abbandonati nelle mani dei populismo”.

I comunisti erano conservatori sui diritti civili.
“Infatti il monismo è stato capovolto nel suo contrario. Ora serve una sintesi alta tra uguaglianza e libertà”.

Lei fa anche una critica al leaderismo.
“Sì, perché nasconde il vuoto, ovvero maschera i processi reali della società”.

Cosa intende?
“Che una volta caduto il leader muore tutto. Ai miei tempi si diceva: “Ha vinto la Dc, ha vinto il Pci, non De Gasperi o Togliatti”.

Nel libro denuncia le maggioranze spurie.
“Sì, non si può andare avanti a lungo così: sono in contraddizione con le battaglie delle idee di cui parlavo prima”.

Quindi le larghe intese del governo Draghi dovrebbero finire nel 2023?
“Assolutamente”.

Cosa la colpisce della crisi ucraina?
“Che non ci sia un movimento in piazza che dica: la vostra geopolitica ci fa schifo, siete tutti matti”.

Il matto qui non è Putin?
“Lui è sicuramente il principale responsabile, però vedo anche un torto dell’Occidente che ha posto l’allargamento della Nato a macchia d’olio senza tenere conto delle conseguenze”.

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