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Aldo Agroppi: “Soffro di depressione. Il calcio di oggi? Roba da ridere. Spalletti un prete che voleva spiegare a Totti come si gioca”

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Aldo Agroppi è morto oggi a 80 anni. Ripubblichiamo l’intervista del 4 febbraio 2023 per la rubrica Revival

Agroppi, come sta?

“Ho qualche acciacco ma sto bene. Vista l’età non mi lamento”

È un po’ che non la vediamo, che sta facendo?

“Guardo la televisione, faccio le parole crociate, vado a fare la spesa. Sono diventato un omino di casa”.

E il calcio?

“Non lo guardo più, non sopporto le seconde voci, sono insopportabili, sono diventati dei personaggi”.

Anche lei ha fatto la seconda voce.

“Sì, sono stato uno dei primi. Forse il primo. Ho lavorato con Pizzul, ho seguito anche la Nazionale e la Champions. Ero bravo. Ancora oggi la gente mi ferma per strada e mi chiede quando torno. Ma ormai il mio tempo è passato”.

Lo sa che la sua ultima panchina è stata giusto 30 anni fa? La Fiorentina la chiamò a gennaio 1993 dopo l’esonero di Radice, e poi è stato esonerato ad aprile.

“Trent’anni, come passa il tempo… Me la ricordo quella partita, perdemmo 3-0 contro la Juve a Torino”.

E il giorno dopo fu cacciato.

“Se la ricorda la mia conferenza stampa? Eravate tutti lì con il taccuino aperto pronti a massacrarmi, invece io mi alzai in piedi, mi presi tutta la colpa, ringraziai società, squadra e tifosi e me ne andai lasciandovi tutti a bocca aperta”.

Però dopo quel giorno non ha più allenato, perché?

“Era finita, non c’erano più i presupposti. Non sopportavo l’ansia e le tensioni e la depressione mi consumava dentro. Mi accorsi che non ero più un allenatore”.

Lei è stato uno dei primi a parlare pubblicamente della sua depressione, poi anche altri l’hanno seguita.

“Mi fa compagnia da tanti anni, ancora ne soffro. La vita dell’allenatore è bella se vinci, ma se perdi diventa tutto difficile. Io ho pagato con la mia vita. La depressione è una malattia oscura, che ti logora dentro. Io la definisco il tumore dell’anima. Non la guarisci. Ho letto che Riva ne sta uscendo grazie ai figli. Ronaldo, quello vero, è stato due anni in clinica e ancora non ne è uscito e Iniesta ha detto che sta bene solo quando dorme, se riesce a dormire”.

E lei?

“Anche da giocatore avevo dei problemi. Ho fatto enormi sacrifici per emergere. Non ero un fenomeno e ho dovuto fare delle rinunce. Anche allora l’ansia di marcare giocatori forti mi consumava. La notte prima di una partita non dormivo mai, nessuno voleva stare in camera con me”.

Non ha mai trovato una via d’uscita?

“No. Ho avuto un’infanzia non facile, e forse questo ha inciso sulla mia formazione. Ho avuto un fratello che è morto a 20 anni, i miei genitori si sono separati presto e io sono cresciuto con i nonni. Chissà…”.

Il calcio non l’ha salvata.

“Sa qual è la cosa che mi disturba di più? Quando mi dicono: hai avuto successo, hai giocato in Nazionale, perché sei depresso? Ecco, questa è la cosa più stupida che si possa dire, seppure carica di affetto. Lo so, non mi è mancato niente, ma se sono così non ci posso fare niente. Mi dicono: reagisci. Ma che sono scemo? Non provo a reagire? Certo che ci provo, ma non ci riesco e solo con i farmaci trovo un po’ di sollievo. E quando finisce l’effetto, ne prendo ancora. Chi soffre del mio stesso male mi può capire, tutti gli altri possono solo intuire come si sta”.

E fare l’allenatore non l’ha certo aiutata.

“I calciatori, nella maggior parte dei casi, sono ignoranti, analfabeti e non capiscono quanto sia difficile il mestiere dell’allenatore. Spesso, invece di darti una mano, formano una cricca per metterti in difficoltà. Con il mio carattere avrei fatto a cazzotti tutti i giorni”.

I suoi anni alla Fiorentina non sono stati facili.

“In effetti ho sempre avuto problemi. La prima volta ero alla mia prima panchina di A, i tifosi erano arrabbiati con me perché non facevo giocare Antognoni. Avevo la polizia sotto casa, mia moglie non poteva andare a fare la spesa e i miei figli a scuola. E ogni giorno all’allenamento c’erano due ali di folla che mi volevano picchiare. Per fortuna c’era Passarella che mi difendeva. Eppure, nonostante tutto, quell’anno arrivammo quarti. Oggi saremmo in Champions”.

Nemmeno i suoi giocatori la amavano troppo.

“Quelli che non giocavano. Un giorno Gentile fece un’intervista in cui disse che non lo facevo giocare perché io ero stato del Torino e lui della Juve. Allora quel giorno lo chiamai alla lavagna dentro lo spogliatoio e gli dissi: falla te la formazione per domenica”.

E la fece?

“Certo. Undici giocatori, come undici erano quelli che mandavo in campo io. Gli dissi: vedi, tu sei più bravo di me ma con questa formazione qualcuno dei tuoi compagni l’hai fatto incazzare di sicuro. E comunque quell’anno Gentile e Antognoni fecero 23 presenze su 30 partite”.

Ha fatto la pace con Antognoni?

“Ma sì, ci sentiamo ogni anno per gli auguri, i rapporti sono cordiali. Quando arrivi a fine corsa come me non hai più voglia di lottare. Io sono uno di scoglio, nella mia vita ho sempre fatto la guerra a chi stava in piedi, ai servi e ai leccaculo. Con Giancarlo è tutto passato. E anche con Lippi, ormai è acqua passata”.

E Gentile?

“Quando diventò allenatore della Under 21 era a Grosseto con la squadra e mi chiese di andare a cena con lui. Aldo, disse, ti devo chiedere scusa, non avevo capito niente, ora so cosa vuol dire fare l’allenatore. Avevi ragione tu”.

La seconda volta alla Fiorentina è andata pure peggio, a fine campionato la squadra retrocesse in B.

“Sì, ma non con me. Infatti il giorno dopo la retrocessione Mario Cecchi Gori mi scrisse una lettera che ancora conservo. E’ incorniciata in casa mia, e quando la leggo ancora mi commuovo. Era un grande uomo”.

Il rapporto con Vittorio Cecchi Gori, invece, non fu altrettanto sereno.

“La prima volta che arrivai alla Fiorentina c’erano Nassi, Piaceri, il presidente Pontello e il professor Baccani che mi proteggevano. La seconda ero solo. Con Vittorio non c’era feeling, Casasco, il direttore sportivo, aveva poco potere e i giocatori… Se sei bravo tecnicamente ma il cervello non funziona riesci a tirare fuori solo stupidità e arroganza. Io ero cotto, ma loro mi hanno bruciato. Non ero più io, è stato giusto fermarmi lì”.

Eppure era una buona squadra.

“Ha ragione, era buonissima. Con quella squadra non si può mai retrocedere, ma nello spogliatoio me ne fecero di tutti i colori. Glielo dica, se accettano facciamo un confronto e faccio tutti i nomi. Io non ero più un allenatore, ma loro erano scemi”.

Possibile che la società non sia mai intervenuta?

“Fu una stagione complicata. Prima il casino con Radice, poi il mio arrivo. Lo ripeto, c’erano giocatori che pensavano solo a cose che con il calcio non c’entrano. I soldi, le donne. Ma la maglia, a quella non ci pensavano. Io mi sono sgolato, glielo dicevo ogni giorno, insieme ci possiamo salvare, ma non è servito a niente. Una società senza peso e giocatori poco intelligenti, eppure fino all’ultimo ho pensato di potercela fare”.

Invece fu esonerato.

“Era inevitabile, non avevo più in mano la situazione. Lì ho capito che era arrivato il momento di farmi da parte. Mi sarei comunque ritirato a fine stagione, ma arrivò l’esonero e la mia storia di allenatore si è chiusa lì”.

Così basta calcio e basta partite.

“Non mi diverto più. Qualche partita la guardo sperando che il portiere faccia un errore con i piedi e gli altri facciano gol. Questa esasperazione che i portieri devono giocare con i piedi mi manda in bestia. Ma se uno ha fatto il portiere è perché vuole giocare con le mani e con i piedi non ci sa fare. O no?”

Diciamo che il calcio in questi trent’anni è cambiato.

“In peggio, però. C’è poca qualità, i procuratori comandano e gli allenatori fanno i fenomeni. Vanno in panchina con la cartella, il computer, hanno staff di quindici persone, hanno pure lo psicologo. Altro che psicologo, per certi allenatori ci vorrebbe lo psichiatra. Ho sempre pensato che un allenatore può incidere al 20 per cento, il resto lo fanno la società e i giocatori. E’ per questo che il prete vince”.

Il prete?

“Sì, io Spalletti lo chiamo così perché parla sottovoce. È un allenatore di esperienza, ma può contare su una squadra di qualità e un presidente che è sempre presente. Ci sono le condizioni giuste per vincere. Però…”.

Però?

“Ogni tanto mi torna in mente un episodio, se vuole glielo racconto”.

Prego.

“Spalletti allenava la Roma, non faceva giocare Totti e il pubblico lo contestava. Ricordo che in una partita, a tre minuti dalla fine, fece cenno al suo secondo di chiamare un giocatore dal riscaldamento. Il suo secondo è un bravo ragazzo, ma ha fatto una carriera da calciatore modesta. Si alza dalla panchina con in mano un bloccone di duecento pagine, e va a chiamare Totti. Si avvicina, apre il blocco e gli spiega i movimenti. Ora io dico, sei davanti a Totti, uno che ha giocato più di te, che è stato in Nazionale, e che è uno dei più forti giocatori italiani e gli devi spiegare cosa fare? Lo trovo offensivo. Ma questo è il calcio di oggi, devi far vedere che sei organizzato, che hai tutto sotto controllo. Il calcio oggi è una roba da ridere”.

Abbiamo capito, con il calcio ha chiuso. Però metà della sua vita l’ha divisa con il pallone.

“E sono contento di quello che ho fatto”.

Nessun rimpianto?

“Nessuno, soprattutto da calciatore. Aver indossato la maglia del Torino per me è stato un orgoglio. Non ho mai cercato altre squadre, non mi è mai importato niente. Quando entravo al Filadelfia sentivo un brivido. Lei c’è mai stato? In quegli anni era un tempio. Aver giocato nel Torino è stata la cosa più bella della mia carriera. Un onore. Del resto non me ne frega più niente”.

 

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