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Non era la prima volta, era quasi un’abitudine. Diana, un anno e mezzo, era già rimasta da sola a casa in altre circostanze. Nel suo lettino da campeggio, con uno o due biberon, due acque col beccuccio e del tè. Prima per qualche ora, poi per giorni. “Almeno nel fine settimana di fine giugno e nei tre di luglio” confessa la stessa madre sotto interrogatorio. Ma questa verità non la diceva a nessuno, Alessia Pifferi, 36 anni. Solo bugie. Al compagno che la vedeva arrivare da sola al Leffe, in provincia di Bergamo, diceva che era con sua sorella al mare o con la baby sitter, “così io respiro”. Alla madre diceva che la bambina era con lei, alle amiche nascondeva che andava a Bergamo perché, a suo dire, non volevano che si riavvicinasse a lui. È lo stesso gip Filice, quando decide di lasciarla in carcere, a osservare che così facendo “abbatte qualsiasi realistica possibilità che qualcuno possa sospettare cosa stia accadendo”.
Kustermann: “Aveva una impermeabilità emotiva”
Ci si chiede allora se questa tragedia fosse prevedibile. In attesa di perizie o analisi, al momento di certo c’è solo lo scudo di falsità che Alessia Pifferi aveva costruito intorno a sé, quell'”impermeabilità emotiva” di cui parla Alessandra Kustermann, per anni anima del Servizio di soccorso violenza sessuale e domestica (Svsed) del Policlinico di Milano. Bugie alla madre, al compagno, ai vicini. Bugie agli investigatori e probabilmente anche a se stessa, quando lava e pulisce la piccola prima di uscire di casa e le lascia quell’unico biberon vicino al lettino da campeggio.
“Perché lo hai fatto?” è la domanda macigno. Glielo chiede per primo il compagno, l’elettricista di Leffe, Bergamo, che lei chiama subito dopo che la vicina ha allertato il 118. E stavolta è solo silenzio, riproposto ai poliziotti, al pm e al giudice davanti allo stesso quesito. Sul compagno gli investigatori non hanno sospetti, perché le versioni concordano. Anche alla madre, la “nonna” che è andata a vivere a Crotone col compagno lasciandola a Milano, erano continue bugie, l’ultima mentre sta rientrando a Milano mercoledì 20: “Sono con Diana”. E la sorella non la sente da due mesi, dice di temerne il giudizio. Con entrambe i rapporti erano difficili, “tesi e distaccati, per via del suo stile di vita e del suo carattere” ha riferito la madre. Il giudice osserva “l’assenza di collegamenti familiari con il territorio, avendo lei interrotto rapporti con la sorella e con la cugina, le uniche parenti che vivono a Milano”. Ma anche “sul piano lavorativo ed economico”.
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A Leffe si spacciava per una psicologa infantile
Perché l’arrestata non lavorava da tre anni. A Leffe si spacciava per una psicologa infantile, a qualcuno in paese ha parlato persino della morte della madre. E sulle prime dice una bugia anche quella mattina al 118 e alla polizia, quando sostiene di aver lasciato la figlia a una baby sitter, Jasmine. E che l’ha sentita nei giorni precedenti, dice, ma poi non ha il suo numero.
E allora cosa si poteva prevedere o intuire nel comportamento di questa donna, non in cura psichiatrica, non segnalata ai servizi sociali, “irascibile se veniva contraddetta” e dal carattere difficile? Un segnale forse era da intravedere in quella gravidanza tenuta nascosta, che il padre biologico ignorava e mai rivelata nemmeno all’elettricista di Bergamo che confessa di essersene accorto solo quando lei ha partorito sul water di casa sua.
Diana non era riempita di affetto materno
“Me ne sono accorta anche io alla fine”, dirà un po’ a tutti. Altra menzogna. Diana non era riempita di affetto materno. “Non giocava mai con lei”, dicono i vicini. Forse troppo poco per prevedere questo dramma, anche perché a più di una persona Pifferi era andata a dire di lavorare con i bambini. “Difficile fare una diagnosi a distanza ma sembra che questa donna vivesse una realtà scissa – dice David Lazzari, presidente dell’Ordine degli psicologi – Quanto emerso è così macroscopico che chi la conosceva meglio poteva rendersi conto di quanto fosse problematica, anche se spesso si riesce a occultare bene. In questo caso emerge una forte marginalità sociale”.