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«Tutto è durato venti secondi, al massimo trenta – racconta Ignazio Silone – Quando la nebbia di gesso si è dissipata c’era davanti a noi un mondo nuovo».Erano le 7.55 del 13 gennaio 1915: una scossa devastante – magnitudo 7 – squassò l’Italia centrale devastando la Marsica, in Abruzzo. Interi paesi furono rasi al suolo, compresa la cittadina di Avezzano, 11mila abitanti: ne sopravvissero solo un migliaio. In tutto morirono oltre 30mila persone.
Il Paese, che di lì a poco sarebbe entrato nella Grande guerra, reagì al dramma con la consueta lentezza, nonostante il sisma fosse avvenuto in una zona non lontanissima dalla Capitale. «Un gran sollievo egoistico, la manìa di evocare le proprie sensazioni e una strana inerzia caratterizzano lo stato psicologico degli scampati dal terremoto – racconta lo scrittore Giovanni Cena, autore di un reportage dalla Marsica distrutta – A tale stato sembra abbiano partecipato un po’ tutti a Roma, dai funzionari dei telegrafi e delle ferrovie a quelli dell’Interno, che non s’accertarono immediatamente se la forte scossa qui risentita fosse stata una radiazione d’una scossa ben più funesta in qualche regione non lontana».
In effetti anche l’Urbe era stata colpita dal terremoto, con una forza che non si ricordava da secoli. La popolazione in preda al panico si riversò nelle strade «più o meno sommariamente abbigliata», si legge sui giornali dell’epoca. Persino le guardie svizzere e i prelati in servizio in Vaticano «dimentichi di ogni etichetta, affluivano verso l’uscita pigiandosi confusamente». Due palazzi crollarono del tutto e ci furono danni agli edifici pubblici, compreso il Campidoglio.