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«La leggenda narra di un uccello che canta una sola volta nella vita, più soavemente di ogni altra creatura al mondo. Da quando lascia il nido, cerca e cerca un grande rovo e non riposa finché non lo abbia trovato. Poi, cantando tra i rami crudeli, si precipita nella spina più lunga e affilata. E, mentre muore con la spina nel petto, vince il tormento superando nel canto l’allodola e l’usignolo. Una melodia suprema il cui scotto è la vita. Ma il mondo intero tace per ascoltare, e Dio, in Paradiso, sorride. Al meglio si perviene soltanto con grande dolore». Dieci anni fa, il 29 gennaio 2015, moriva Colleen McCullough. La scrittrice australiana centrò il mega-successo planetario (oltre 30 milioni di copie) nel 1977 con Uccelli di Rovo, romanzone – scritto mentre insegnava neurologia a Yale – che intreccia il genere rosa con la saga familiare. Ambientato tra Roma e le selvagge praterie australiane, la trama segue la vita di tre generazioni di donne, tutte dal carattere volitivo e indipendente. Al centro della storia Meggie Cleary, unica femmina tra molti fratelli, e il suo impossibile (e peccaminoso) amore con il prete cattolico Ralph de Bricassart. Il libro ha ispirato anche una celebre serie televisiva degli anni Ottanta, con Rachel Ward e Richard Chamberlain. Dopo Uccelli di Rovo McCullough abbandonò le scienze per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Passò i successivi trent’anni a lavorare principalmente alla sua opera monumentale: un ciclo di sette romanzi – di un migliaio di pagine ciascuno – sulla storia dell’antica Roma (Masters of Rome).