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Si è appena conclusa una domenica elettorale importante. Perché ha associato il voto per il rinnovo delle amministrazioni in quasi 1000 comuni, fra cui 26 capoluoghi di provincia e 4 di Regione, ai referendum sulla Giustizia. Con esiti diversi, nonostante la contemporaneità. I referendum sono stati sostanzialmente “disertati”. Vi hanno partecipato circa 2 italiani su 10. Una quota ben lontana dal quorum richiesto, che prevede la maggioranza assoluta. Per diverse ragioni. Il distacco dalle questioni poste, l’in-comprensione della materia, complicata anche per i cittadini più “competenti”. Infine, la scarsa attenzione dei media, lamentata dai promotori. Una con-causa meno rilevante, a mio avviso. Perché è difficile concentrare l’attenzione sui magistrati in tempi “gravati da emergenze davvero gravi”. Il Covid e la guerra, su tutte.
Un’analisi dell’Istituto Cattaneo rileva, peraltro, come gli astensionisti crescano, soprattutto, fra gli elettori della Lega e di FI. Particolarmente critici sul ruolo dei magistrati. Tuttavia, conviene rammentare un testo (di 40 anni fa) curato da Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino. Dal titolo evocativo: Il voto di chi non vota. Per chiarire come “non votare” sia, spesso, una scelta di voto.
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Alle elezioni comunali, comunque, la partecipazione è apparsa molto superiore. E una quota significativa di elettori ha votato alle amministrative, rifiutandosi di ritirare le schede del referendum. Nel complesso, ha votato per eleggere il sindaco e le amministrazioni locali oltre il 50% dei cittadini.
Non è semplice ricavare indicazioni su base “nazionale”, da consultazioni che hanno carattere “locale”. Tuttavia, è opportuno ragionare in questo senso. Perché ogni elezione, al di là del contenuto e della dimensione territoriale, viene interpretata in prospettiva politica “nazionale”. Tanto più in questa fase, visto che tra (un po’) meno di un anno sono in programma le elezioni legislative. Cioè, “politiche”. Siamo, quindi, in campagna elettorale (permanente). Un percorso che coinvolge partiti, leader e coalizioni. E le regole del gioco, cioè, le leggi elettorali, spingono a cercare alleanze e alleati. Non solo dove vige il sistema “uninominale” a turno unico. Anche per la parte “proporzionale”, in quanto occorre superare una soglia di sbarramento. Inoltre, le elezioni amministrative sono, chiaramente, “personalizzate”. Perché si vota per un “sindaco”, noto ai cittadini. Le elezioni nazionali, in qualche misura, si sono “modellate” sullo stesso “modello”. Perché i partiti si sono “personalizzati”. Sono divenuti “partiti del leader”. Per questa ragione le elezioni locali hanno impatto nazionale. Soprattutto in questo periodo di grande incertezza e fluidità.
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Se consideriamo i (142) Comuni maggiori (oltre i 15 mila abitanti) si precisano alcune tendenze, già rilevate dai commenti degli attori e degli osservatori politici. E chiarite, in questa occasione, dall’analisi dell’Oss.Elettorale Demos-LaPolis (Univ. di Urbino).
La prima è il ridimensionamento del M5S, che ha sempre avuto difficoltà nelle elezioni “territoriali”, in quanto canale per esprimere protesta e disagio politico. Sul piano nazionale. La seconda tendenza richiama i problemi della Lega di Salvini, che, al contrario del M5S, è nata come “partito del territorio”. In particolare, nel Nord. In seguito, invece, si è personalizzata e nazionalizzata. E collocata a destra. Ha perduto, così, la sua identità originaria. E si trova, anche per questo, in difficoltà. Perché il suo spazio sul territorio non è più radicato come un tempo. In questa occasione, infatti, appare poco presente nel Sud. Mentre il suo spazio politico è stato “occupato” dai FdI, che sono esplicitamente di Destra. E, attraverso Giorgia Meloni, esprimono una “rappresentazione personale” più efficace.
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Il Pd, infine, sembra meno coinvolto da questi problemi. Anche per questo, ha ottenuto un risultato positivo. L’analisi di Demos-LaPolis rileva, infatti, come sia il primo partito in 46 fra i Comuni (maggiori) dove si è votato. Quasi un terzo. La sua performance, peraltro, è migliore nel Centro-Nord, ma nel Centro-Sud si conferma rilevante. E lo (im)pone come primo partito.
È, quindi, evidente come il “campo largo” costituisca una risorsa utile, per il Pd. Che, in ogni caso, ne costituirebbe il fondamento. Mentre il M5S, senza “entrare in campo”, rischierebbe l’isolamento. Nel complesso, questo “passaggio elettorale” non pare aver cambiato il percorso “politico” italiano degli ultimi anni. E mesi.
Conferma, infatti, un diffuso disincanto dei cittadini verso i partiti e le istituzioni. Con due effetti. Anzitutto, “la frammentazione”. Oggi non ci sono partiti e leader in grado di coinvolgere gli elettori. Non per caso, il soggetto di riferimento è Draghi. Un leader non eletto. Senza partito. In secondo luogo: “il distacco”. Il sentimento di in-differenza che rende tutto e tutti uguali, nel campo politico. Istituzioni, partiti e capi. Così, non funziona neppure l’anti-politica. Piuttosto che votare e schierarsi “contro”, si preferisce “non votare”. Restare fuori.