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Arrestati mentre preparavano un attacco. Il pericolo jihadista che viene dall’Italia

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È di queste ore la notizia dell’inchiesta in Trentino da parte dei Ros dei Carabinieri di una giovane coppia, marito (ora ai domiciliari) e moglie, entrambi nati in Italia, che secondo gli inquirenti stavano progettando un attentato ispirato dallo Stato Islamico. Non pare che ci fosse un pericolo imminente, anche se il marito, perito chimico, aveva accesso a sostanze idonee alla fabbricazione di esplosivi.

Cosa ci dicono i casi di Trento e Milano

Il caso riporta comunque l’attenzione sul pericolo del terrorismo jihadista e rivela alcuni recenti trend presenti in Italia e a livello globale. Innanzitutto, il legame coi Balcani. La coppia trentina era di origine kosovara, come un numero non indifferente di militanti pro-Stato Islamico fermati negli ultimi anni in Italia. Lo scorso novembre, per esempio, era stata arrestata a Milano per proselitismo online una 19enne kosovara che faceva parte di una rete jihadista legata ai Balcani ma presente in tutta Europa e che includeva l’albanese che aveva compiuto l’attentato di Vienna nel 2020.

Nonostante l’islam locale sia storicamente tra i più moderati, dalla caduta del comunismo influenze esterne hanno portato alla radicalizzazione di una parte della popolazione musulmana balcanica e della diaspora in Europa. Nella loro relazione al Parlamento i servizi italiani definiscono la regione come “potenziale incubatore della minaccia terroristica verso l’Europa”, evidenziando anche “i possibili rischi di emulazione da parte di estremisti islamici intranei alle comunità balcaniche in Europa occidentale”. I casi di Trento e Milano dimostrano anche che “figure femminili, appartenenti ai nuclei familiari di noti estremisti, stanno gradualmente assumendo ruoli chiave nello svolgimento di attività” di propaganda e reclutamento.

La radicalizzazione via web

Il caso conferma un altro trend assodato: la centralità del web. Casi di radicalizzazione in cui internet non sia presente sono una rarità assoluta e se spesso il consumo di materiale jihadista fa da compendio a dinamiche di interazione personale, sono ormai sempre più comuni dinamiche in cui l’intero percorso di radicalizzazione, dal primo incontro con l’ideologia jihadista, all’approfondimento dei temi, all’interazione con altri soggetti, per finire con l’attivazione e pianificazione di attacchi avvenga esclusivamente sul web. Negli ultimi anni è anche diventata più comune la diffusione sul web di propaganda jihadista in lingua italiana, spesso traduzioni di testi in arabo e in inglese compiute da simpatizzanti della jihad nati e cresciuti nel nostro Paese.

Infine è da notare l’apparente interesse della coppia trentina, ora indagata, ad unirsi allo Stato Islamico in Africa dopo aver compiuto un attentato in Italia. Negli ultimi anni varie regioni dell’Africa, da paesi del Sahara alla Nigeria, dal Congo al Mozambico, hanno visto un’esplosione di attività terroriste (è dello scorso weekend, per esempio, la notizia, passata in secondo piano sui media, dell’uccisione di 132 civili nel Mali per mano di una formazione jihadista locale) ed il baricentro del jihadismo globale pare essersi spostato dal Medioriente al continente africano.

Una minaccia in continua evoluzione

L’operazione di Trento non è di per sé indicativa di una recrudescenza del fenomeno jihadista, che ha visto il suo apice negli anni del Califfato, tra il 2014 e il 2017. Oggi i livelli sono più bassi, ma gli addetti ai lavori sanno bene che la minaccia non si è assolutamente dileguata, ma è in continua evoluzione. In Italia una traiettoria sempre più evidente, che ci porta ad avvicinarci a dinamiche viste in paesi del centro-nord Europa da anni, è quella della crescente natura autoctona (homegrown) del jihadismo nostrano. Seconde generazioni e convertiti, soggetti che si radicalizzano sul web o in piccole aggregazioni, ma quasi sempre ben lontano da moschee e comunità islamiche.

E spesso si tratta di soggetti, come pare nel caso trentino, provenienti da realtà non particolarmente problematiche, ben integrati nel tessuto sociale e con un buon livello d’istruzione. Non un problema comunitario ma di percorsi personali, schegge impazzite che solo un capillare lavoro di monitoraggio e cooperazione con famiglie e comunità può portare il nostro antiterrorismo ad individuare. Il sistema ha anche questa volta funzionato bene, ma non ci si deve illudere che sia perfetto ed è chiaro che in futuro anche il nostro Paese possa essere colpito.
Lorenzo Vidino è il direttore del Programma sull’Estremismo alla George Washington University.

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