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L’impossibilità di trasferire alle regioni alcune materie strategiche, dalle politiche energetiche a quelle ambientali, dal commercio estero all’ordinamento delle comunicazioni fino alla gestione delle grandi reti di trasporto e navigazione. Con alcuni limiti posti anche alle norme generali sull’Istruzione. Nessuna possibilità di trasferimento per quelle funzioni, insomma, che richiedono una capacità di coordinamento spesso sovranazionale, o che incidono sui diritti civili e sociali: e che, quindi, dovranno essere condizionate alla definizione e al finanziamento reale dei Livelli essenziali delle prestazioni. Che non si potranno determinare con i decreti della presidenza del Consiglio dei ministri (Dpcm).
Ecco i punti principali posti dalla sentenza, 166 pagine, relatore il costituzionalista Giovanni Pitruzzella, depositata oggi dalla Consulta sull’Autonomia Differenziata. Le motivazioni arrivano diciannove giorni dopo l’ampio comunicato con cui i giudici demolivano l’impianto del regionalismo firmato Calderoli, all’esito dei ricorsi contro quelle norme avanzati dalle regioni Toscana, Puglia, Campania e Sardegna.
Cosa accadrà ora con i referendum, che, con quesiti diversi, puntavano all’abrogazione totale e anche parziale della legge leghista? In mattinata, il presidente della Consulta, Augusto Barbera, a margine di un evento alla Camera, alza le mani in attesa della prima pronuncia della Suprema Corte: “Noi abbiamo appena depositato la sentenza. Ora tocca all’Ufficio centrale del referendum alla Cassazione, alla quale abbiamo trasmesso il testo, perché deve verificare se ci sono le condizioni o meno per la consultazione referendaria. Questo è il primo dei passaggi, per gli altri si vedrà”.
Poi, interpellato sui tre giudici in scadenza alla Corte Costituzionale (oltre a quello già mancante, dopo le votazioni flop in Parlamento) si augura che la anche che la politica faccia presto il suo dovere: “Auspico che si riesca rapidamente” , dice. “Perché siamo già in ritardo e corriamo dei rischi di avere un collegio sottoposto a qualsiasi virus del raffreddore o dell’influenza. Io spero si riesca”.
La Consulta continuerà a vigilare
Lo scorso 14 novembre, la Corte aveva già rilevato sette profili di incostituzionalità e indicato correttivi per altri cinque fondamentali punti, a stoppare la rotta di una sorta di sovranismo regionalismo che non teneva in conto i principi costituzionali di sussidiarietà e di unità della Repubblica. Oggi la sentenza motiva, punto per punto. Rimette al centro la coesione del Paese e la centralità del Parlamento, ristabilendo la gerarchia tra gli organi, che la legge Calderoli, di fatto, cancellava. Dunque, un’Autonomia tutta da rifare.
Nelle motivazioni, la Consulta afferma innanzitutto la sua competenza a sindacare le future leggi di differenziazione che potranno essere impugnate da qualsiasi regione, per verificare il rispetto dei principi costituzionali indicati nella sentenza. Tra le materie indicate nell’articolo 116, comma 3 – quello che regola l’Autonomia – ve ne sono sette per le quali il trasferimento di funzioni, alla luce del principio di sussidiarietà, risulta difficile se non impossibile, e pertanto le leggi che lo prevedessero saranno sottoposte a uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale.
Inoltre, il trasferimento dovrà avvenire senza nuovi oneri per le finanze pubbliche, quindi facendo riferimento a costi standard e criteri di efficienza della spesa che consentano, di regola, di spendere meno per le funzioni trasferite rendendo possibile che lo Stato mantenga nel suo bilancio le risorse necessarie per il funzionamento dei suoi apparati e dei suoi compiti nelle materie cui si riferiscono le funzioni trasferite.
Non esistono “popoli regionali”
La legge è smantellata ulteriormente. Sia per gli ambiti a cui puntava, sia per la strutturazione del percorso legislativo. Motivando i vari profili di illegittimità, i giudici partono da una premessa: “Il popolo e la nazione sono unità non frammentabili, senza che siano in alcun modo configurabili ‘popoli regionali’ ”, con buona pace del disegno leghista e dei tavoli già in atto tra il ministro e i presidenti Zaia o Fontana.
Ed ancora: “La ricchezza di interessi e di idee di una società altamente pluralistica come quella italiana non può trovare espressione in un’unica sede istituzionale, ma richiede una molteplicità di canali e di sedi” dalle quali “ottenere anche politiche differenziate, in risposta a domande emergenti”. Ma, mettono un punto fermo i giudici, “spetta solo al Parlamento il compito di comporre la complessità del pluralismo istituzionale”.
Perché, al di là dell’ “indirizzo politico della maggioranza e del governo”, è il Parlamento a dover “tutelare le esigenze unitarie tendenzialmente stabili, che trascendono la dialettica maggioranza-opposizione”.
La concorrenza non può minare l’unità
La Consulta esplicita poi lo stop dato alla corsa agonistica tra regioni. “Certamente qualsiasi sistema regionale ha in sé degli elementi di competizione tra le regioni, perché dà modo a ciascuna di esse, nell’ambito delle attribuzioni costituzionali, di seguire politiche differenti nella ricerca dei migliori risultati. Tuttavia – è il monito della Consulta – l’ineliminabile concorrenza e differenza tra regioni e territori, che può anche giovare a innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche, non potrà spingersi fino a minare la solidarietà tra lo Stato e le regioni e tra regioni, l’unità giuridica ed economica della Repubblica (articolo 120 della Costituzione), l’eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti (art. 3 Cost.), l’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) e quindi la coesione sociale e l’unità nazionale – che sono tratti caratterizzanti la forma di Stato -, il cui indebolimento può sfociare nella stessa crisi della democrazia”.
Sui Lep, tutto da rifare
La sentenza si concentra su un’altra questione dirimente dell’Autonomia: la definizione a monte dei livelli essenziali delle prestazioni, ovvero gli standard minimi per servizi civili e sociali da offrire ai cittadini, ovunque residenti nel territorio italiano. La Consulta già aveva annunciato, nel precedente comunicato, l’impossibilità di procedere, per i Lep, con i decreti della Presidenza del Consiglio dei ministri. I giudici citano la Calderoli, bollando come “generiche e inidonee” le finalità espresse nella legge voluta da questo governo, quando affermava “il pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni”. Sì, ma come si pensava di attuare l’obiettivo?, sembra chiedersi la Corte. Scrivono infatti i giudici: “I Lep implicano una delicata scelta politica, perché si tratta – fondamentalmente- di bilanciare uguaglianza dei privati e autonomia regionale, diritti ed esigenze finanziarie, e anche i diversi diritti tra loro”. E si tratta, soprattutto, ricorda la Consulta, “di decidere quei livelli delle prestazioni con le risorse necessarie per garantire uno standard uniforme” di quei servizi “in tutto il territorio nazionale”. E’ inoltre dichiarata l’illegittimità della legge di bilancio che prevedeva la determinazione dei Lep con i decreti della presidenza del Consiglio dei ministri (Dpcm). In sintesi: se prima non si definiscono i criteri della delega legislativa non si potrà aggirare la sentenza, attraverso Dpcm.
I criteri della delega non potranno essere multi settoriali (e quindi vaghi e generici) ma dovranno essere specifici per settori: e rispondere ad una rigorosa istruttoria e motivazione, così come, alcuni mesi fa, avevano segnalato in audizione sia l’Ufficio parlamentare di Bilancio, sia la Banca d’Italia.
Il regionalismo, ecco il cuore della sentenza, deve essere costruito ed orientato al servizio del bene comune e della garanzia dei diritti. Dalla parte del popolo, dei cittadini, e non di chi governa.
E’ fondamentale un altro aspetto: la sentenza parla sempre di funzioni specifiche o determinate.
In conclusione – si legge ancora – “l’articolo 116, terzo comma, della Costituzione richiede che il trasferimento riguardi specifiche funzioni, di natura legislativa e/o amministrativa, definite in relazione all’oggetto e/o alle finalità, e sia basato su una ragionevole giustificazione, espressione di un’idonea istruttoria, alla stregua del principio di sussidiarietà”.
Quindi, citando Bobbio, la Corte sottolinea che l’organizzazione dello Stato e il regionalismo devono essere visti ex parte populi e non ex parte principis.