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Si dice che il fulmine non colpisca mai due volte lo stesso luogo ma, probabilmente, si tratta di un augurio più che di una certezza. Oppure, quanto vale per le folgori non riguarda i moti più sinistri dell’animo umano perché, a Brescia, nell’agosto del 2006, avvengono sette delitti uno dietro l’altro. Come se l’impulso omicida fosse un virus e nella città che porta con orgoglio un leone rampante nel gonfalone, in una manciata di giorni, diciotto per l’esattezza, fosse esploso un cluster di contagi.
Era buia quell’estate, a Brescia. Forse è per questo che, anche se Mompiano, quartiere della periferia Nord, è un posto tranquillo dove la criminalità è scarsa e si può camminare senza paura, la madre di Elena Lonati telefona alla figlia e le chiede di andare alla chiesa di Santa Maria ad accendere un cero. Un po’ di luce in tutte quelle tenebre non può fare male. La fede, per chi ce l’ha, può essere qualcosa a cui aggrapparsi ed Elena, che ha ventitré anni e di mestiere fa l’assistente sociale, lo sa bene. In certe situazioni, che siano di disagio personale, collettivo o economico, anche solo un piccolo bagliore può indicare la via per tornare a respirare. Però, quell’agosto bresciano è così buio che la fiamma di una candela non riesce a illuminare proprio niente.
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L’arrivo in chiesa, poi più nulla
È poco prima di mezzogiorno del 18 agosto, venerdì, che Elena viene vista entrare nella chiesa di Santa Maria e sarà solo il 19 sera che ne uscirà: morta. Inizialmente la ventitreenne risulta persona scomparsa, ma quasi subito gli inquirenti sospettano che non si tratti di una fuga d’amore, un colpo di testa o di quello che genericamente viene chiamato “allontanamento volontario”. C’è qualcosa che non torna. Ad esempio, il sagrestano della chiesa di Santa Maria, si è volatilizzato. L’ultima volta che è stato visto era la sera del 18, a messa. Poi sparisce e non è da lui farlo. Il suo nome è Wimal Chamila Ponnamperumage, è cingalese, ma tutti lo chiamano “Camillo”. È un coetaneo di Elena e viene descritto come una persona pacata, riflessiva. Sempre disposto a dare una mano. Il classico tizio che, in un caso come questo, lo si immaginerebbe pronto a farsi in quattro per aiutare le forze dell’ordine. Invece, non lo si riesce neppure a rintracciare. Il parroco, don Cesare Verzelletti, riferisce ai carabinieri di non credere che Camillo abbia potuto incrociare Elena perché venerdì 18, più o meno a mezzogiorno, il sagrestano doveva recarsi alle poste per una raccomandata: voleva avvisare la fidanzata che era stato trovato il modo di ricongiungersi in Italia. Don Cesare sbaglia.
La telefonata di ‘Camillo’ a uno zio
Il 19, sabato, Camillo fa sentire la sua voce. Telefona ad uno zio. Sono le quindici e trenta. La chiamata è confusa perché Camillo è in lacrime. Fra un singhiozzo e l’altro confessa l’omicidio di Elena. Racconta che si è trattato di un incidente. Dice che alle dodici, come è prassi per Santa Maria, doveva chiudere la chiesa e che la ragazza gli stava facendo perdere tempo. Hanno litigato e lui, a un certo punto, è come impazzito. L’ha spinta, Elena è caduta, ha battuto la testa ed è morta. Allora, prosegue Camillo, l’ha avvolta in un sacco di plastica e l’ha nascosta. Dove? In chiesa, sotto le scale del campanile. Quindi, chiude la comunicazione.
Lo zio di Camillo non sa come gestire quell’ammissione e così, anziché avvertire i carabinieri, chiede aiuto là dove suo nipote aveva trovato una seconda casa: in parrocchia. Corre da don Cesare e il panico, proprio come il buio e quel virus omicida che serpeggia fra le strade di Brescia, deve essere infettivo perché don Cesare contatta i carabinieri soltanto ore dopo, alle diciannove di quel sabato sera. Prima, forse sperando in una luce dall’alto che schiarisca i suoi pensieri, ha celebrato la messa serale. I carabinieri ci mettono poco a trovare Elena. Camillo non ha mentito, il cadavere è nel campanile. Il sagrestano, tuttavia, è ancora a piede libero e verrà arrestato la mattina del 20 mentre si sta recando da un avvocato. Indossa gli abiti di venerdì e, nella notte, dice, ha tentato il suicidio ingerendo venti aspirine. Dove le abbia prese e da chi, non lo sapremo mai. Agli inquirenti Camillo ribadisce la sua versione. L’alterco, lo spintone, la paura. Solo che non è andata così. L’unica luce di quell’agosto 2006, non è quella del cero di Elena, ma quella, cruda, violenta, ma mai bugiarda, del tavolo autoptico.
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La ‘volontà omicidaria’
La necroscopia afferma che sì, sulla nuca della vittima c’è il segno di un urto, ma non è quella la causa del decesso. Elena è morta soffocata. La dinamica, a posteriori, è facile da ricostruire. L’alterco c’è stato, e deve essere stato violento perché Elena ha battuto la nuca contro la maniglia del portone della chiesa. Significa che se ne stava andando, ma significa anche che qualcuno la stava spintonando aggressivamente già da un po’, perché, altrimenti, l’urto sarebbe stato frontale. Peggio ancora. Non c’era panico, dicono i referti autoptici, nelle mosse successive dell’assassino. Camillo è stato attento. Ha stretto Elena in posizione fetale, di modo da poterla trasportare con più agilità, quindi ha passato il nastro adesivo attorno al suo corpo, con forza, stringendolo più e più volte proprio attorno al collo. Questo, secondo gli investigatori, indica che il sagrestano era sufficientemente lucido da comprendere che Laura era svenuta e non morta, ma che nonostante ciò, abbia deciso coscientemente di esercitare una “volontà omicidiaria”.
La condanna e i dubbi rimasti
Camillo viene condannato a diciotto anni e quattro mesi. La verità giudiziaria è stata trovata, ma il buio di quell’agosto è ancora lungi dall’essere dipanato. Un’ombra su tutte: il parroco, don Cesare. Perché ha aspettato così tanto per avvertire i carabinieri? Per incredulità, ha sempre detto. Possibile, ma anche se in quell’agosto 2006, di umanità a Brescia ce ne è poca, uno degli impulsi più forti dell’animo umano è la curiosità. Perché tenersi quel dubbio nel petto per ore e ore quando la soluzione era lì, a portata di mano? Possibile che don Cesare non sia andato nel campanile per controllare, con i propri occhi, se quanto riferito da Camillo allo zio, non fosse vero? L’unica risposta sensata è: forse. E con i “forse” non si costruiscono i processi e non si emettono sentenze.
Il male che infetta le menti
La storia di Elena, però, non finisce il 20 agosto. Sono passati sedici anni, ma il mondo ancora non vuole lasciarla in pace. Quando Camillo finisce di scontare la sua pena, accorciata per buona condotta, a Elena tocca diventare un meme. La sua tragica vicenda viene usata per suscitare quell’indignazione distratta che non porta a nulla se non a qualche like. Però, forse, quel meme col viso sorridente di Elena può aiutarci a intravedere una verità più nascosta e subdola: l’infernale capacità del buio di mutare, riempire ogni spazio, reale o virtuale che sia, e continuare a infettare le menti.