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Caso Open Arms, le ong: “Chi sono gli illegali? Salvare non è reato, impedirlo sì”

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“Questo processo non è un passaggio importante solo per la flotta civile o chi si occupi di soccorso in mare, ma per il ripristino dello Stato di diritto nel nostro Paese”. Oggi è in Emergency, reduce da una delle ultime missioni nel Mediterraneo sulla Life Support, ma nell’agosto 2017 Rossella Miccio era una delle psicologhe a bordo della nave ong Open Arms, che insieme al resto dell’equipaggio e a 147 naufraghi per diciannove giorni ha potuto solo guardare la terra da lontano. Per indicazione del Viminale, all’epoca in mano a Matteo Salvini, i porti per la nave dell’omonima ong spagnola sono rimasti chiusi. “Spero che si arrivi alla conclusione di questa vicenda penosa, con il riconoscimento delle responsabilità di chi ha trattenuto a bordo 147 persone che avevano solo bisogno di sbarcare in un porto sicuro”.

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Per l’attuale ministro dei Trasporti la procura ha chiesto sei anni, mentre il mondo della flotta civile seguiva passo passo, in aula o in collegamento, la requisitoria dei pubblici ministeri. “Non possiamo che fare eco al procuratore, che ha sottolineato come la difesa dei diritti delle persone venga prima della difesa dei confini. Questo deve essere il principio guida morale e di diritto nell’ambito del soccorso in mare”, commenta la portavoce di Sea Watch Italia, Giorgia Linardi. “Questo processo può segnare un prima e un poi nell’ambito della criminalizzazione del soccorso in mare. Può essere un modo per affermare che non esistono esseri umani di serie A e di serie B, quindi doppi standard nell’applicazione dei diritti”.

È sentimento comune nel mondo della flotta civile. “Al di là di come finirà il processo di merito, è importante che venga ristabilito il principio che il soccorso è un dovere e impedirlo è un reato – spiega Valeria Taurino di Sos Méditerranée – Il Mediterraneo centrale è una fossa comune che continua ad allargarsi, per colpa anche di 8 anni di politiche di criminalizzazione dei soccorritori e di blocco dei salvataggi”.

Oggi non c’è ong impegnata della flotta civile che non abbia dovuto combattere per liberare la propria nave, bloccata in porto da un fermo per un salvataggio di troppo o sulla base delle ricostruzioni – spesso false, hanno stabilito in più di un caso i giudici – della Guardia costiera libica. I processi contro le ong taxi del mare, a partire dal cosiddetto caso Iuventa crollato dopo un’udienza preliminare durata anni, si sono accartocciati uno dopo l’altro.

A Ragusa ne rimane uno, forse l’ultimo. Luca Casarini, capomissione di Mediterranea, è uno dei soccorritori ancora sotto inchiesta. “Chi sono gli illegali?Questa requisitoria mette al centro il vero tema di questi anni. È possibile che a processo ci sono quelli che salvano le persone e non quelli che li fanno affogare, che fanno gli accordi con la Libia, che fanno sì che finiscano nei lager in Libia?”, chiede Casarini. Le proteste della Lega, che con i suoi ha denunciato il presunto carattere politico della requisitoria, osserva, “dimostrano solo che hanno paura. Penso che non sia un processo contro l’Italia ma un processo contro quello che disonora l’Italia: far violenza agli indifesi, violare i diritti umani e far morire la gente in mare”.

 

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