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Ma che fatica e impegno è la bellezza, per la donna di oggi. Quando, poi, lo strascico di questo super lavoro a 360 gradi è un susseguirsi incessante di confronti implacabili e vette inespugnabili di insoddisfazione, c’è da chiedersi quanto è grande la pressione della società sull’importanza dell’aspetto fisico e quanto è destinata a crescere con l’avvento dell’intelligenza artificiale, e le sue proposte di perfezione estetica. Irraggiungibili nei risultati, tangibili negli effetti “semina ansia e insicurezza”.
A registrarli, l’ultimo studio commissionato dal marchio cosmetico Dove condotto su 33 mila donne in 20 Paesi, tra cui l’Italia. Qui, le risposte delle intervistate non rivelano né autostima né tantomeno accettazione di sé, per come si è, poiché 1 donna su 3 sente il bisogno di cambiare il proprio aspetto fisico dopo essere stata esposta alle immagini generate con l’intelligenza artificiale. A cui si aggiunge una nota inquietante: più di 1 donna su 4 sarebbe disposta a rinunciare a un anno della propria vita per raggiungere il suo ideale di bellezza.
Così, proprio per tamponare quest’emorragia di sicurezza e senso di realtà, Dove ha lanciato la campagna “The Code” e creato “AI: guida ai prompt per difendere la Bellezza Autentica”, una guida gratuita disponibile sul web (dove.com) e pensata per aiutare a creare immagini rappresentative della vera bellezza, attraverso i programmi di IA più popolari.
Intanto Starbene ha intervistato Stefania Andreoli, psicoterapeuta e scrittrice, sul potenziale impatto che le nuove tecnologie hanno su giovani e adulte in termini di percezione della loro avvenenza.
Dottoressa Andreoli, ma la bellezza può meritare un anno di vita in meno?
«Pare di sì. Per quanto la risposta possa risultare macabra, le donne vorrebbero vivere meno ma sentendosi meglio nella propria pelle e soffrendo meno o meno a lungo. È un profondo disagio legato a stare nel proprio corpo che dà voce a quest’affermazione».
La bellezza è un dato oggettivo o soggettivo?
«Domanda controversa che, di questi tempi, potrebbe accontentare molti e indignare altri. In ogni caso, secondo gli studi scientifici, la percezione del nostro occhio riconosce la bellezza oggettiva come bellezza simmetrica, ossia armoniosa: tanto più gli elementi fisici di un individuo sono in ordine tra loro (simmetrici, appunto), tanto più siamo portati a registrarlo come bello e viceversa.
Dobbiamo fare pace, perciò, con il fatto che, trasversalmente, i più riconoscano l’avvenenza in determinati soggetti invece che in altri: a questa stregua, diventa una variabile più oggettiva che soggettiva. Ciò posto, di fatto la bellezza è un parametro complesso, composto da molti fattori: corpo, fascino, voce, gusto, e ciò ci può acquietare circa il fatto che tutti possiamo essere belli. Basta che individuiamo che cosa crediamo sia il nostro quid di bellezza da coltivare. Da offrire agli altri, da offrire a noi stessi per riconciliarci con le nostre caratteristiche somatiche».
Qual è il canale che media la percezione di noi stesse?
«Di recente, mi sono trovata a lavorare con una paziente provata dalle parole del suo compagno: “Tu non sei il mio ideale estetico, ma ti amo moltissimo da anni”. Perché stare male, per un’affermazione che non toglie niente a un buon rapporto di coppia? Perché queste parole vanno a colpire un difficile rapporto che una donna può avere con il suo aspetto fisico, altrimenti sarebbero cadute nel vuoto. Cito l’esempio per dire che i feedback esterni vanno a finire in un paniere che, sicuramente, dispensa punti a favore dell’autostima (o disistima) ma da soli non bastano a tranquillizzarci (o allarmarci)».
Sentirsi belle, appunto, è essere belle nella sostanza?
«Si tratta di un discorso che apriamo e portiamo avanti con noi stessi. Si poggia sulla capacità di riuscire a coltivare una sufficiente scorta di autostima, che non significa piacersi a tutti i costi ma piacersi abbastanza. Per dirci che andiamo bene al netto dei nostri difetti. È un muro granitico contro gli assalti esterni: se positivi, non sono altro che una conferma, se negativi non ci scalfiscono».
I social hanno amplificato il mito della perfezione estetica. Sappiamo che di reale c’è poco, però quanto siamo condizionate da questi modelli…
«Per quanto pensiamo che l’utopia sia tale, non smettiamo mai di sognarla, immaginarla e ambire alla sua realizzazione. Certo ci sono donne, pochissime in termini numerici, geneticamente più fortunate di altre, che facciamo diventare “statistica” di riferimento: sapere che nell’universo c’è qualcuna che apparentemente rasenta la perfezione (o che modifica la propria immagine per arrivarci) smuove il tentativo di assomigliarle. Per non rischiare di non dover essere o di essere da meno».
Però, il nostro mondo lascia spazio, almeno sulla carta, alla libertà di essere come si è…
«In questa dicotomia tra la sovranità dell’individualismo a tutto campo e la schiavitù della bellezza a senso unico, c’è di base l’ipocrisia di avere cercato di liberare tutti i corpi, validandoli uno per uno e facendo credere di esserci riusciti. Non è così, purtroppo. A oggi, infatti, la verità è che abbiamo solo massimalizzato l’attenzione sul corpo, rendendolo un argomento centralissimo sia sui social sia nelle nostre vite. Quindi, anziché sdoganarlo come qualcosa che va bene in tutte le sue forme, lo abbiamo messo ancora di più sotto la lente d’ingrandimento: non si parla d’altro».
Quali saranno gli orizzonti futuri nell’incontro/scontro con tecnologie sempre più avanzate?
«A mio modo di vedere, credo che questo processo di digitalizzazione sempre più spinto porti a una progressiva disumanizzazione che ci renderà sempre meno amici della nostra imperfezione umana (in tutti i sensi) e sempre più nevrotizzati circa il tentativo di ambire a essere molto più simili a macchine che non a persone».
Ma riusciremo mai a fare pace con il nostro corpo?
«Dipende da quale angolazione anagrafica guardiamo questo rapporto. C’è un’età nella vita femminile in cui ancora si sta mentalizzando il proprio corpo, e una 15enne che “contesta” le sue cosce o la sua pelle imperfetta, è un passaggio inevitabile, fisiologico. Perché l’adolescenza è il periodo in cui ci si può permettere di non conoscersi ancora a sufficienza per sentirsi a posto così come si è. Per questo, credo che sia giusto non consegnare alle ragazze il diktat di “stare bene nella propria pelle”: significa solo iper responsabilizzarle in un momento in cui fare la guerra al proprio corpo è del tutto normale».
Per la tregua tra noi e lo specchio dobbiamo aspettare, perciò?
«Penso che l’età adulta debba portare a una pacificazione maggiore. Non è che da un certo compleanno in avanti la bellezza passi in secondo piano, ma è sulla bellezza in senso lato che dobbiamo puntare le nostre fiches: quella del gesto, della gentilezza, di un sorriso, di uno sguardo. La bellezza, infatti, è tante cose e metterle insieme come ingrediente principale delle nostre ricette di vita quotidiana è importante. In questo, possono aiutare l’età, l’esperienza e la salute. La verità, infatti, è che ci si vede tanto più belli quanto già si sta bene e non si sta bene perché ci si vede bene».
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Tag: autostima, bellezza, intelligenza artificiale, ossessione.