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ROMA – Non si voterà in Aula sulle armi da inviare all’Ucraina, né su un’eventuale escalation militare. Mario Draghi si presenterà in Aula il prossimo 19 maggio per il question time. Un appuntamento già ufficialmente fissato al Senato da diversi giorni. Risponderà a eventuali domande del Movimento di Giuseppe Conte, se arriveranno. Ma il format non prevede una conta parlamentare. E questo non soltanto perché Palazzo Chigi non ha intenzione di riaprire il capitolo del sostegno bellico a Kiev. Ma soprattutto perché nessuno, ad eccezione dell’avvocato, ha chiesto che si metta ai voti la linea del governo.
Fino a ieri, il capo dei 5S ha insistito: “Se Draghi dovesse andare a Washington senza passare dalle Camere, sarei molto deluso. Anche per lui, per avere un mandato più forte”. Il problema, però, è che si è voltato e si è ritrovato solo. Draghi non ha mai ritenuto possibile mettere ai voti qualcosa che il Parlamento ha già approvato con la risoluzione che ha dato il via libera al “soccorso” all’Ucraina. Non può accettare che qualcuno – ancor meno un suo predecessore – provi a rimettere in discussione gli impegni presi pubblicamente e a livello diplomatico con Zelensky, con la Nato, con l’Europa. Per di più alla vigilia della missione alla Casa Bianca, dove a nome dell’Italia prometterà a Joe Biden nuovi aiuti militari a Kiev e nuove sanzioni contro la Russia.
“Più armi all’Ucraina”. L’agenda di Biden per il viaggio di Draghi
dal nostro corrispondente
Paolo Mastrolilli
L’idea del Movimento era quella di costringere il capo dell’esecutivo a contarsi su una risoluzione. Avevano anche già pronta una bozza in tre punti, affidata da Conte al vice-presidente 5SRiccardo Ricciardi, che spiega: “Sollecitiamo un tavolo di negoziato per la pace. E chiediamo di chiarire che l’Italia non vuole il regime change in Russia”. Infine, si insiste sul no all’escalation tramite invio di armi, con una formula ancora da trovare.
Già martedì scorso, d’altronde, il presidente dei deputati 5S Davide Crippa aveva provato a coinvolgere gli altri gruppi, sperando di arrivare a una mozione. Aveva cercato sponde in conferenza dei capigruppo. Nessuno ha annuito.E a formalizzare al premier la richiesta, alla fine, è stato solo il Movimento. Neanche tutto, visto che gli uomini di Luigi Di Maio hanno difeso la linea dell’esecutivo. Il centrodestra ha ignorato l’avvocato. Né si è speso il leader considerato più vicino a Putin: Matteo Salvini. Il segretario della Lega, soddisfatto per l’accordo siglato sulla delega fiscale, ha garantito a Draghi che non solleverà alcuna obiezione sulla linea del governo almeno fino al termine della sua missione negli Usa. Nessuno strappo e nessuna polemica: tutto congelato.
Una posizione chiaramente diversa da quella di Conte, malgrado le perplessità sull’invio delle armi che accomunano i due protagonisti dell’esperienza gialloverde. Il Carroccio si accontenta di attendere Draghi in Aula il 19. Il fuoco, certo, cova ancora sotto la cenere anche in casa leghista. Ma per Salvini, ora, la priorità è propagandare il successo su casa e fisco. E per lui è diventato “ragionevole” attendere gli sviluppi del vertice fra Biden e il premier, puntando “su un riavvicinamento fra Usa e Russia”. È una tregua, quella che offre, senza rinunciare ai soliti convincimenti che certamente non sono condivisi da Draghi: in primo luogo, la preoccupazione per la gestione della crisi da parte dell’amministrazione statunitense. Perché, fa sapere, “dall’Afghanistan in avanti ha raccolto fiaschi, con conseguenze negative sulla sicurezza internazionale”.
Il senatore milanese, come ha ammesso nei giorni scorsi, ha nostalgia di Trump. Ritiene che il sostegno alla politica estera dell’ex inquilino della Casa Bianca si sia rivelato “ben motivato”. Intanto l’asse con il presidente dei 5Stelle, almeno per il momento, si è spezzato.