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I miliardi di euro del Pnrr in arrivo fanno gola alle mafie. E alle potenti organizzazioni criminali italiane non si può lanciare alcun segnale di cedimento. Tantomeno su una questione delicatissima come l’ergastolo ostativo, quello dal quale, fino a maggio scorso, nessun mafioso poteva uscire se non collaborando pienamente con la giustizia. Ma dopo l’intervento della Consulta, che ha ritenuto questo automatismo incostituzionale, il Parlamento deve cambiare la legge. Ma è già in ritardo, visto che il termine ultimo scade a maggio dell’anno prossimo, giusto quando, a Palermo e in tutt’Italia, ricorre l’anniversario della morte di Giovanni Falcone. Il rischio è che la Corte decida da sola, se la politica non si mette d’accordo.
Bisogna partire da qui per comprendere l’ansia del segretario del Pd Enrico Letta nel dedicare una delle sue “agorà democratiche” alla lotta alla mafia, affidandola a Piero Grasso, oggi senatore di Leu ed ex presidente del Senato, che sceglie proprio l’ergastolo ostativo per organizzare un parterre di interventi. Dal costituzionalista Ugo De Siervo, a Rosy Bindi, da Franco Roberti ad Anna Rossomando, da Mauro Palma a Mario Perantoni. Tantissime voci che, in soli quattro minuti di intervento per ciascuno, mettono sul tavolo la necessità, ma anche l’estrema difficoltà di giungere a un’intesa.
Politicamente, il messaggio è chiaro. Sta nelle parole di Letta: “Non credo a un centrosinistra delle sigle, dei partitini, dei partitoni. Non funzionerà mai, non attirerà nessuno. Credo a un’operazione che nasca sui temi e parta dalle persone e dai cittadini”. Stavolta tocca alla mafia e all’ergastolo ostativo. Perché arrivano i fondi del Pnrr e “il segnale peggiore che può capitare è quello di non tenere alta l’asticella rispetto all’aggressione mafiosa”. In uno scambio insistente di “caro Piero”, “caro Enrico”, Letta e Grasso si trovano d’accordo, la legge va fatta e la coesione della sinistra è fondamentale per arrivarci.
La materia è complessa tecnicamente, e i pareri dei tecnici e dei politici s’incrociano in due ore. Emerge tutta la difficoltà di mettere mano a una questione che divide profondamente il fronte dell’Antimafia, tant’è che il presidente del tribunale di Palermo Antonio Balsamo definisce “paradossale” il rischio “di demolire l’impianto voluto da Falcone proprio negli stessi giorni in cui ricorre l’anniversario della strage”. Certo, esistono i margini offerti dalla giustizia riparativa, quella per cui si batte la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ma molto deve fare un boss di una potente famiglia mafiosa per poter dimostrare di non avere più alcun contatto con l’organizzazione.
Ecco le preoccupazioni di Rosy Bindi, l’ex presidente della commissione parlamentare Antimafia: ”Non ho accolto a cuor leggero la decisione della Consulta. La mafia è un fenomeno eccezionale e questo l’Europa non lo comprende. Dalla mafia non si esce con facilità, ma con la collaborazione o con la morte”. Eppure, dopo la sentenza della Corte bisogna decidere, avendo ben chiaro che “nella lotta alla mafia lo Stato ha sempre rispettato la Costituzione”. Bindi suggerisce di “mettere paletti, di valutare il percorso del detenuto e della sua famiglia, ma anche lo stato dell’organizzazione a cui appartiene”. Certo è che l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario del 1975 non può restare quello che è diventato.
Come dice Piero Grasso 15 interventi consecutivi tutti su quell’articolo sono troppi. Sopratutto quando mescolano, con le stesse norme, i reati di mafia, di terrorismo, ma anche di corruzione, di violenza sessuale, di peculato. “Trovo inaccettabile – dice l’ex procuratore nazionale Antimafia – che chi abbia fatto uno stupro di gruppo possa avere dei permessi premio solo con la buona condotta o partecipando a percorsi riabilitativi, senza una valutazione della pericolosità e di un concreto ravvedimento; al tempo stesso, però, per questo tipo di reati, i criteri pensati per i reati associativi come la collaborazione o l’attualità dei collegamenti, non hanno senso”.
Ovviamente Grasso condivide i dubbi – quelli di Maria Falcone, assente dall’agorà per via di una brutta influenza – sulla collaborazione come pietra miliare per buttarsi l’ergastolo ostativo alle spalle e ottenere la “liberazione condizionale”. “Continuo a ritenere la collaborazione fondamentale per fare giustizia – dice Grasso – per ricercare la verità e dare certezza sulla definitiva rottura del patto criminale. Non avremmo mai fatto il maxiprocesso senza Buscetta; mai saputo parte della verità su Via D’Amelio senza Spatuzza, e lo stesso vale per Brusca su Capaci. Non bisogna assolutamente depotenziare questo strumento”.
Già, ma la Consulta dice che l’essere pentiti non può essere l’unica via per ottenere i benefici. E allora, per Grasso, toccherà “al detenuto, come dice la stessa Corte, dimostrare di non avere più nulla a che fare con le mafie”. E su questo Franco Roberti, oggi europarlamentare del Pd ed ex procuratore nazionale Antimafia anche lui, non è d’accordo, non dovrà essere l’ergastolano stesso a dare questa prova, ma la conferma dovrà arrivare dal suo percorso carcerario e dai magistrati. Un fatto è certo, e Grasso ne parla espressamente quando dice che “il rischio è chiarissimo, non costruire un sistema sufficientemente rigoroso può riportare senza le dovute certezze fuori dal carcere mafiosi del calibro dei Graviano”.
Esistono i margini per arrivare a una legge entro maggio dell’anno prossimo? Il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni di M5S, relatore del provvedimento, dice di sì, perché, “con il consenso di tutti”, si è già giunti a un testo base, al termine per gli emendamenti che scadono il 7 dicembre. Per lui “un buon risultato è possibile” perché “non possiamo permettere che certe persone possano tornare a compromettere la pace sociale ed economica che sta ripartendo dopo un periodo terribile”. Ma è necessario “contemperare la Costituzione con le esigenze di sicurezza”.
Eppure proprio la voce di un deputato del Pd come Carmelo Miceli, siciliano, dimostra che il percorso sarà pieno di ostacoli, perché la decisione della Consulta viene definita “demolitoria”, perché “dalla mafia si esce o morti o perché si collabora”, perché, come chiede la Fondazione Falcone che ha presentato un suo progetto di legge alla Camera, “è fondamentale che l’ergastolano fornisca il suo contributo alla verità”.
Affermazioni che certo suonano differenti da quelle più aperturiste della responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando e del vice capogruppo dei Dem al Senato Franco Mirabelli. Per Rossomando “come ha detto la Consulta, la legge deve preservare la funzione riabilitativa della pena insieme all’efficacia e alla peculiarità degli strumenti di contrasto alla criminalità di stampo mafioso”. Per Mirabelli non si può “rinunciare all’idea che anche persone colpevoli di delitti tremendi possano cambiare, ma non sarebbe tollerabile se queste persone avessero benefici mantenendo i rapporti con le mafie, ed è su questo che bisogna essere rigorosi”.
Il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ricorda che anche i numeri contano e che ad avere la liberazione anticipata negli ultimi anni sono stai 33 ergastolani ostativi e che oggi gli ergastolani sono 1.807 su 37.696 detenuti definitivi. La media delle condanne all’ergastolo dal 2000 al 2020 è stata di 140 all’anno. Ma, dopo la sentenza della Consulta, secondo Palma, è necessaria “una norma che sia punto di equilibrio tra diversi aspetti, la sicurezza della collettività, il chiaro messaggio alla criminalità organizzata, il non affievolimento degli strumenti di contrasto, l’inderogabilità di diritti fondamentali”.
Questa carrellata si può chiudere com le parole di Franco Corleone, oggi Garante dei detenuti del Friuli – autore di un volume con il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia e il costituzionalista Andrea Pugiotto dal titolo Contro gli ergastoli appena uscito – che ricorda quando hanno detto Papa Francesco oggi e Aldo Moro nel 1976. Ecco le parole del Pontefice: “L’ergastolo è il problema, non è la soluzione”. E quelle di Moro: “L’ergastolo, privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte”.