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MILANO – “Con Gemma Calabresi abbiamo fatto un percorso comune, entrambe insegnanti di religione e vicine di casa. Lei ha fatto un passo verso il perdono più lungo del mio. Il mio è piccolo”. Vanna Bertelè è vedova di Luigi Marangoni, ucciso nel 1981 dalla colonna Walter Alasia delle Br in cui militava Sergio Tornaghi.
Mai fatto un tentativo di riconciliazione?
“Uno degli assassini di mio marito mi scrisse dopo il processo. L’esecutore materiale lo ha fatto qualche anno fa, in un percorso di giustizia riparativa. Voleva parlarmi. Non ho accettato”.
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Perché?
“Non me la sentivo. Sto bene così. La rabbia dei giorni dell’omicidio si è acquietata, il processo ci ha dato tutte le risposte, non lasciò dubbi. Mio marito, l’obiettivo come lo chiamavano loro, era un simbolo, ucciso perché faceva bene il suo lavoro. Per creare caos e fare la rivoluzione”.
Sergio Tornaghi
Le basta?
“Metto da parte. Penso alle cosebelle. Trovo la pace. In fondo, le famiglie delle vittime di piazza Fontana non hanno nemmeno avuto i loro colpevoli”.
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Dunque, la decisione francese non la turba?
“Me lo aspettavo, la loro linea è sempre stata questa, no? Rifugiarsi in quello che diceva Mitterrand. Non mi importa più se rimandano in Italia queste persone dopo quarant’anni. Questi arresti, forse, sono serviti come manovre di disturbo, ma il giorno dopo c’erano già le raccolte di firme a loro favore. Mi disturba di più un fatto di principio”.
Quale?
“Mi spiace che la Francia consideri la nostra giustizia da terzo mondo. Non è così. Io il processo per mio marito l’ho seguito tutto. Volevo sentire, capire: lavoravo all’Università Cattolica e il tribunale era pure vicino. Trovarono tutto, i riscontri, i percorsi. Il pm Grisolia fu bravissimo anche nei nostri confronti”.