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Ciao Fedez, gli direi, mezzo commento l’hai già scritto tu, anzi per certi versi hai impedito (a me e ad altri) di giocarlo sul prevedibile. E hai fatto bene. Rendendo pubblici alcuni segmenti audio delle tue sedute dallo psicologo, hai tirato in ballo le tre categorie sociologiche più facilmente utilizzabili dai commentatori, “professionali” e non: “voglia di condividere, manie di protagonismo, o narcisismo fine a sé stesso”.
Così, il ragionamento può partire un passo oltre. Il confine già labile fra pubblico e privatissimo continua a sfaldarsi; e io non so dire se sia un bene o un male: è un dato di fatto. Parlare apertamente della propria malattia (Justin Bieber è il caso più recente), esporre in tempo reale la propria crisi di panico (l’ha fatto il cantante Lorenzo Fragola qualche giorno fa) può determinare nello spettatore tanto complicità quanto fastidio e imbarazzo profondo.
Ma il giudizio lascia il tempo che trova: e per uno che si stizzisce (e può comunque voltare pagina), c’è qualcuno che invece trova balsamico quell’esercizio spericolato di condivisione. Semmai, nel caso di Fedez, colpisce il suo avere squarciato un paravento molto novecentesco: quello che protegge il lettino dell’analista. Il dottor Freud strabuzzerebbe gli occhi? Chi può dirlo. E in ogni caso, la voce rotta del rapper non è dissimile, nella sostanza, a quella straziata dell’amico con cui Freud passeggiava un secolo fa ragionando sulla paura di ciò che finisce.
La furia della caducità! Ci pensiamo troppo poco. Ecco, quando Fedez condivide la sua paura di morire, o quella di essere dimenticato dai suoi figli; e ancora di più quando si chiede se ciò che ha vissuto gli abbia realmente insegnato qualcosa, sta portando i pensieri di migliaia di persone laddove non vorrebbero andare. Perché è estate, perché vivere spesso è non pensare.
Ciao Fedez, gli direi, ti ringrazio per questo: tra un attimo riprendiamo a ballare, a scherzare, per carità, ma non è superfluo mettersi ogni tanto davanti alla prima verità, che è la morte. Non è insano porre e porsi qualche domanda radicale sul senso, farsi scuotere dalla paura. E anche piangere, e mettersi in testa – insieme a Freud, a Montaigne, a te – che è solo pensando al morire che si può imparare a vivere.