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Genova, posti occupati sul convoglio, la capotreno: “Suo figlio è autistico? Mi mostri i documenti”

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È successo di nuovo. Treno affollato. Persone che occupano una carrozza dedicata ai disabili e che non ne vogliono sapere di spostarsi. Questa volta non è una comitiva di ventisette persone costretta a scendere dall’Intercity Genova-Milano, vicenda accaduta due mesi fa che aveva fatto molto rumore. Cambiano i protagonisti, non la sostanza: anzi, se possibile c’è un’aggravante. Perché è la madre di un bambino disabile a dover dimostrare alla capotreno la situazione, mostrando i documenti che attestano il grave autismo del figlio.

I fatti. Stazione di Vesima, domenica pomeriggio: l’altro ieri. Maria Tarzia è con suo figlio, che ha cinque anni, un autismo di terzo livello e iperattività di settimo grado. Sono diretti a Brignole. Il treno si ferma, loro salgono sulla carrozza dedicata alle persone disabili. “Ci sono due signori con la bici proprio davanti all’ingresso – racconta Maria Tarzia – io chiedo di farci passare, impedivano proprio l’accesso ai passeggeri”. Loro rispondono bruschi: ma dove c… me la infilo la bici? Inizia una discussione. “Io sottolineo che si trovano in un vagone dedicato ai disabili, uno dei due mi risponde: io disabili non ne vedo. Allora io spiego che in realtà mio figlio è affetto da una forma severa di autismo, e tra l’altro inizia ad agitarsi. Mi rispondono: no, suo figlio è semplicemente maleducato. E poi: se è autistico non doveva neanche salire su un vagone così pieno”. Si crea un capannello di persone che supportano Maria, i toni si alzano.

Arriva la capotreno. “Si informa su quello che stava accadendo – continua Maria Tarzia – e poi, educatamente, mi chiede di mostrare i documenti che certificano l’invalidità di mio figlio. Io li ho sempre dietro e dunque non ho alcuna difficoltà a farli vedere. La capotreno li controlla, e poi invita i ciclisti a scendere: se ne vanno arrabbiati, dicendo frasi come “perché uno è disabile allora deve essere privilegiato?”.

Gli altri passeggeri, quando i due scendono dal treno, applaudono. “Il punto non è tanto la richiesta dei documenti – ragiona Tarzia – quello che mi ha infastidito è che la prima cosa da accertare fosse la disabilità di mio figlio e non il fatto che i ciclisti stavano impedendo l’ingresso al vagone compromettendo la sicurezza di tutti, per di più occupando un posto che non era per loro. E’ una questione di priorità. E culturale, anche: come se la disabilità che non vedi debba essere provata, dimostrata. Purtroppo su questi temi c’è ancora tanta ignoranza. Sui commenti dei ciclisti non voglio esprimermi: ci siamo assuefatti al menefreghismo verso i più fragili, e invece non bisogna mai abituarsi a cose del genere”.

Trenitalia ha risposto con una nota, di fatto minimizzando l’accaduto: ha spiegato che i ciclisti sono stati fatti scendere dal vagone, che l’operazione è durata pochi minuti e, soprattutto, ha negato la richiesta del capotreno di controllare i documenti.

Sulla vicenda interviene Marco Macrì, padre di un bambino disabile e rappresentante regionale delle oltre 1.200 famiglie che vivono le sue stesse difficoltà, in prima linea per sensibilizzare su questi temi: “Se la disabilità non è immediatamente evidente cosa deve fare un genitore? Sbandierare i documenti del proprio congiunto per ottenere un diritto e non farsi prevaricare? Questo è un segno di insensibilità inaccettabile verso chi è più fragile”.

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