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Francesco Gratteri, che nell’ultimo decennio del secolo scorso e nel primo del nuovo millennio fu uno dei poliziotti più importanti d’Italia, non ci sta.
Nel 2012, dopo che furono necessari, a causa anche di comportamenti omertosi da parte del corpo di appartenenza, 11 anni per appurare la verità, Gratteri ex capo del Servizio Centrale Operativo e poi del Dipartimento Anticrimine, venne condannato con altri superpoliziotti a 4 anni per falso aggravato per il processo simbolo del G8 del 2001.
Secondo i giudici di Cassazione partecipò alla falsificazione dei verbali con i quali si cercò di giustificare l’irruzione nella scuola Diaz e il conseguente massacro indiscriminato – la tristemente celebre “macelleria messicana” – di manifestanti innocenti, sorpresi nel sonno da decine agenti mai identificati nonostante la presenza sul posto, quella nera notte di luglio, dei più raffinati investigatori italiani.
Nonostante la Corte europea di Strasburgo abbia respinto un ricorso di Gratteri e compagni e nonostante la stessa Corte abbia condannato l’Italia perché all’epoca non aveva una legge contro la tortura, Gratteri non si arrende e ritenta. La Procura generale di Milano ha infatti chiesto che venga rigettata la richiesta di revisione del processo presentata dagli avvocati di Gratteri.
L’istanza di revisione era stata dichiarata inammissibile “de plano”, ossia senza udienza, dalla Corte d’Appello di Torino, ma poi, su ricorso dei difensori, la Cassazione ha stabilito che non era manifestamente infondata e che andava celebrata un’udienza di discussione. Udienza che si è tenuta davanti alla quinta Corte d’Appello di Milano (presidente del collegio Francesca Vitala), e nella quale la sostituta pg Paola Pirotta ha chiesto che venga respinta l’istanza perché, secondo la Procura generale guidata da Francesca Nanni, non ci sarebbero prove nuove portate per chiedere la revisione del processo.
Del tutto diversa la posizione della difesa di Gratteri (presente in aula oggi) che ha depositato anche una mole di documenti. La Corte si è riservata e deciderà in un’udienza fissata per dicembre. Gratteri non ha mai voluto ammettere le sue responsabilità.
Nel 2013 quando si tenne l’udienza per ottenere l’affidamento ai servizi sociali di diversi condannati che altrimenti avrebbero dovuto scontare alcuni mesi di carcere Gratteri fece questa dichiarazione: «Non mi inginocchio per ottenere i benefici. Sono dispiaciuto per quanto accaduto nella scuola Diaz, ma quella nei miei confronti la ritengo una sentenza ingiusta. Io quella notte sono stato ingannato».
A Gratteri non solo nessuno chiese di inginocchiarsi, pratica per altro medievale, ma neppure quel sistema di relazioni che veniva individuato con al dizione “Partito della polizia” fece mai nulla per stoppargli la carriera – come per altro prevedevano le normative europee bellamente ignorate da governi italiani di destra e di sinistra -. Gratteri divenne questore , poi prefetto e addirittura, nel 2013 due anni dopo la condanna definitiva il Ministero gli pagava ancora un appartamento di servizio nel cuore di Roma per ragioni non meglio precisate di sicurezza. Poi qualche consulenza in aziende di Stato di cui si veniva a sapere quasi per caso.
Ora l’ultimo tentativo di chi rifiuta metaforicamente di inginocchiarsi mentre i manifestanti pestati quella notte prima di essere presi a manganellate vennero davvero fatti inginocchiare dalla sbirraglia rimasta senza nome.