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ROMA – Il Centro è un miraggio. Il Centro, ovvero un Centro unito, è l’isola che non c’è. Tutti lo inseguono, nessuno riesce a conquistarlo. E neppure a definirlo. E sì che i potenziali demiurghi di quest’area politica sono di primo livello: Di Maio, Renzi, Calenda, Toti, Brugnaro, Sala. Ministri, ex premier, governatori, sindaci di primo livello: “Quanti generali, ma le truppe?”, ironizza ferocemente il leader forzista Antonio Tajani. Di certo, è un mondo squassato da un terremoto – provocato dall’atterraggio dell’ex capo politico dei 5S – e in continuo divenire.
Ci sono sigle che muoiono, altre che nascono nel giro di poche ore. Scompare Coraggio Italia, figlia un anno fa di un’altra scissione (quella dentro Forza Italia) e nasce Vinciamo Italia: l’ha fondata Marco Marin, olimpionico di scherma con un passato in FI, che di Coraggio Italia era capogruppo. Con lui sei deputati. “Vinciamo Italia” viaggia a braccetto con “Italia al centro”, creatura di Giovanni Toti, che il presidente ligure lancerà il 9 luglio. Intanto conta 4 deputati. Insieme, le due formazioni andranno a costituire una componente del Misto alla Camera, con l’obiettivo di formare gruppi autonomi in entrambi i rami del Parlamento. Ci sarebbe già qualche leghista in uscita utile all’operazione. La terza gamba di Coraggio Italia, retta dall’imprenditore e sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, si stacca e tiene con sé sette deputati, soprattutto ex grillini. “Con Brugnaro c’è totale estraneità politica”, sibila Toti. E aggiunge: “Abbiamo indirizzi politici totalmente diversi”. Quali? Presto detto: Toti e Marin vanno verso il centrodestra (e hanno già incontrato i vertici della coalizione), mentre Brugnaro ha aperto un solido canale con Luigi Di Maio. “La scomposizione dentro i partiti andrà avanti fino alla presentazione delle liste per le Politiche”, scommette Osvaldo Napoli, uno che questi ambienti politici li frequenta da lustri.
La circostanza racconta due cose: narra della vivacità di questo pianeta invisibile e della rissosità dei suoi abitanti. Prendiamo Carlo Calenda, che oggi sarebbe il più robusto fra questi, sul piano elettorale: lo dicono i risultati delle Amministrative (da prendere con le pinze) e i sondaggi. Calenda ne ha uno in mano che, da qui a qualche mese, proietta la sua “Azione!” all’otto per cento. In forza di questa prospettiva, l’ex ministro da tempo professa la sua autosufficienza: dice no a Renzi (“Fa chiacchiere”), dice no a Di Maio (“In un Paese normale sarebbe preso a pernacchie”), vuole correre da solo noncurante di chi gli fa notare che con l’attuale sistema elettorale maggioritario un’operazione del genere equivale a un suicidio. Avrà fortuna? Presto per affermarlo.
È un mondo di primedonne e federatori che lavorano nell’ombra: sono ore febbrili per Bruno Tabacci, esperto navigatore centrista che con Di Maio ha un dialogo costante. Nei giorni del Quirinale i due convenivano sul Mattarella-bis e, in alternativa, sul nome di Giuliano Amato. Non sbagliarono di molto, mettiamola così, mentre Di Maio veniva inseguito dagli strali del presidente dei 5S Conte che gli rimproverava “un’agenda personale delle consultazioni”. Adesso Tabacci offre al ministro il simbolo del Centro democratico (altro logo della galassia moderata, fra i più antichi) per far sbarcare “Insieme per il futuro” anche al Senato.
E intanto il deputato milanese fa da ambasciatore per un grande progetto: federare il centro ma senza sganciarlo dal Pd. La sopravvivenza del campo largo lettiano, minato dalla scissione nei 5S, è insomma legata anche al lavoro di tessitura di Tabacci. Per lui Calenda e Di Maio devono convivere, per dirne solo una. E Conte, che Tabacci cercò invano di salvare come premier tentando di organizzare i “Responsabili”? Deve stare dentro quest’area. C’è chi parla di riedizione della Margherita. E chi, invece, segnala come il perimetro su cui si concentra Tabacci è l’area Draghi, un cartello elettorale che avrebbe come riferimento (consenziente o meno) il premier, spogliata di Lega e FI. Poi, sia chiaro, anche dentro Forza Italia c’è chi è tentato dalla costruzione di un’area Draghi. E qui serve la declinazione al femminile: la ministra azzurra Mara Carfagna dice che le piacerebbe che venisse conservato “il metodo Draghi” e non esclude che l’attuale premier non succeda a se stesso. In più, sottolinea che FI ha perso consensi, la invita “a recuperare spazi di Centro”, punta il dito sulle divisioni della Lega (“chissà se dopo i ballottaggi non si aprirà una discussione in quel partito”) e loda Di Maio: “La scissione dei 5S è un bene, c’è un processo di maturazione contro posizioni radicali ed estremiste”. Ma al momento i ministri moderati (Carfagna, Brunetta, Gelmini) non lasciano Berlusconi. Difficile che, da quelle parti, qualcosa si muova se non si farà una riforma elettorale in chiave proporzionale.
Nel frattempo è scesa in campo l’armata dei sindaci, Nardella, Gori, Pizzarotti e soprattutto Beppe Sala, che ieri ha sfilato assieme a Tommasi a Verona. Vogliono puntellare il campo largo che tanto largo rischia di non essere più. Da Margherita a nuovo Ulivo il passo è breve: perché il cantiere del Centro è anche un generatore di suggestioni passate. Renzi bordeggia questo bacino cercando di dargli una copertura internazionale. Ieri, a Bruxelles, ha partecipato al vertice di Renew Europe dove ha abbracciato Macron e incassato i complimenti del premier olandese Mark Rutte: “È una bella notizia che in Italia si voglia costruire un forte soggetto di Centro”. E qui entra in scena l’ennesimo costruttore: l’eurodeputato Sandro Gozi, eletto in Francia. “Renew? Potrebbe sbarcare in Italia ed essere l’ombrello di un’aggregazione moderata”, dice. L’ultima pista, nel giallo senza fine degli eredi della Dc.