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Il femminicidio di Roberta Siragusa, il fidanzato condannato all’ergastolo. La madre: “Ora i complici”

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Prima, il fidanzato la colpì con un sasso. Poi le diede fuoco. Infine, gettò il corpo in un dirupo. La corte d’assise presieduta da Vincenzo Terranova ha condannato all’ergastolo Pietro Morreale, il ventenne che assassinò Roberta Siragusa la notte fra il 23 e il 24 gennaio 2021, nel parcheggio del campo sportivo di Caccamo. Aveva vent’anni, lei. Nell’aula al piano terra del palazzo di giustizia di Palermo, ci sono i genitori di Roberta ad assistere alla lettura del dispositivo, i giudici sono rimasti in camera di consiglio per dieci ore e mezza. “Non avremmo accettato nulla di meno dell’ergastolo – sussurra in lacrime la madre, Iana Brancato – . Per come ha tolto la vita a mia figlia non deve averne più una di sua”.

In aula ci sono anche il fratello della vittima e una trentina di amici, con la maglietta che raffigura il volto della giovane uccisa. C’è scritto: “Giustizia per Roberta”. Non c’è invece l’imputato, che ha scelto di attendere in carcere il verdetto della corte.

La sentenza accoglie le richieste del pubblico ministero, il sostituto procuratore di Termini Imerese Giacomo Barbara, che per Pietro Morreale aveva chiesto il carcere a vita: nella requisitoria aveva sottolineato “la certezza della colpevolezza dell’imputato” e il suo gesto premeditato, commesso per gelosia. Così il magistrato aveva ripercorso le fasi drammatiche di quella sera: “Lui era all’interno dell’auto con Roberta, fu lui a spostare l’autovettura dal campo sportivo e a tentare di telefonare ad altri amici mentre il corpo di Roberta era ancora in fiamme. Fu lui a trascinare il corpo in fiamme di Roberta e a nasconderlo nel dislivello scosceso”. Una ricostruzione minuziosa quella della procura diretta da Ambrogio Cartosio, supportata dalle indagini dei carabinieri della Compagnia di Termini, che hanno ripercorso attimo per attimo i movimenti dell’imputato quella notte maledetta, e anche i suoi tentativi di crearsi un alibi. Per questo caso, sono state messe in campo attività tecniche e rilievi del Reparto investigazioni scientifiche. E, alla fine, è emersa quella che per la procura è “l’evidenza della prova”.

Ha detto il pubblico ministero: “Fu un omicidio, e non un suicidio, come l’imputato ha sostenuto durante il processo”. Morreale ha dichiarato che Roberta si era data fuoco da sola. Ma è stato smentito punto su punto, come ribadito anche dal pool di legali che sostenevano i familiari costituiti parte civile: gli avvocati Giovanni Castronovo, Giuseppe Canzone, Simona Lo Verde e Sergio Burgio.

Per la procura non ci sono dubbi. Prima, la ragazza venne colpita al volto: a pugni e con una pietra. Poi, il fidanzato la bruciò nel parcheggio del campo sportivo di Caccamo, mentre era ancora viva. Una fine atroce. Il cadavere venne poi caricato sull’auto e gettato in un dirupo ai piedi di monte Rotondo, alle porte del paese. Ad inchiodare Morreale c’è anche un filmato acquisito dai carabinieri qualche giorno dopo il delitto, realizzato dalla telecamera di un negozio. Il pubblico ministero l’ha mostrato in aula: nelle immagini si vede chiaramente l’auto parcheggiata, una Fiat Punto, a un certo punto c’è una deflagrazione. Pietro Morreale ha assistito all’agonia della fidanzata, e non fece nulla per salvarla. Dopo essersi liberato del corpo, tornò a casa a dormire. La mattina dopo, si presentò alla caserma dei carabinieri, raccontando un cumule di bugie: “Prima Roberta si è cosparsa di benzina, poi si è gettata nel dirupo”. Quella mattina, Morreale si presentò con il padre e il suo avvocato, condusse subito gli inquirenti sul luogo dove c’era il corpo della ragazza. Una storia che ha ancora molti lati oscuri. Dice la madre: “Adesso non ci possiamo fermare, chi lo ha aiutato ad uccidere la mia piccola deve pagare”.

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