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«Vediamoci al bar Santoro — dice al telefono — fra un quarto d’ora». Santino Di Matteo, il collaboratore di giustizia che per primo ha svelato i segreti della strage di Capaci, evita di stare per troppo tempo in un posto. Da anni, ormai, è fuori dal programma di protezione, lo Stato non gli ha mai perdonato di essere tornato in Sicilia, nel 1994, per cercare suo figlio Giuseppe, che era stato rapito dai boss. «Ti aspetto fuori, ai tavolini — precisa ancora al telefono — nel caos di piazza Indipendenza nessuno si accorgerà di noi».
Oggi, Santino Di Matteo è tornato nuovamente a Palermo, ma solo per un giorno. «Solo per affidarti tutta la mia indignazione», sussurra ora davanti a un caffè. «Continuo a leggere sul sito di Repubblica di boss ergastolani messi in semilibertà». Fa una pausa e riprende con vigore: «Ma come fanno certi giudici del Nord a scrivere che pericolosi mafiosi sono diventati detenuti modello, i mafiosi hanno un solo pensiero in testa: riorganizzare Cosa nostra». Santino Di Matteo si guarda attorno, sono appena arrivati due ragazzi nel tavolo accanto al nostro. «Lassù, dove vivo — sorride — non lo fanno un caffè così buono». Ma, intanto, ha squadrato dalla testa ai piedi quei due ragazzi col casco in mano. Poggia la tazzina e dice: «Killer in permesso premio tornano a Palermo per quindici giorni e io, invece, che ho pagato un prezzo altissimo per aiutare lo Stato a sconfiggere i boss delle stragi, devo continuare a nascondermi lontano dalla Sicilia. Espulso a vita dal programma di protezione nonostante la mafia mi abbia ucciso un figlio per le mie dichiarazioni».
C’è davvero un gran caos in piazza Indipendenza, alle dieci del mattino. Nessuno si accorge di quest’uomo che ha negli occhi gli orrori della mafia, gli orrori che continua a vedere. «Nell’ultima telefonata — sussurra ora Santino Di Matteo — qualche tempo prima del rapimento, Giuseppe mi diceva: “Papà, come stai? Papà, non ti preoccupare”. Era lui che faceva coraggio a me, aveva il dono del sorriso. E me l’hanno ammazzato». Stavolta, mentre parla, accenna uno sguardo a un gruppo di ragazzi che in un altro tavolino non smette di ridere e scherzare. «Avranno marinato la scuola», dico io. «Hanno quindici anni», dice invece lui, come a giustificarli. «Quindici anni, l’età che aveva mio figlio quando fu strangolato e sciolto nell’acido dopo700 giorni di prigionia».
Santino Di Matteo è amareggiato. «Trent’anni di lotta alla mafia non si possono mettere da parte con un tratto di penna — insiste — Queste scarcerazioni rischiano di vanificare tutto». Gli ultimi boss in libertà di cui Repubblica ha scritto sono Vito Brusca, il cugino di Giovanni, il capomafia di San Giuseppe Jato che ordinò l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, oggi anche lui un collaboratore di giustizia; e poi Girolamo Buccafusca, di Porta Nuova. Ogni mattina, escono dal carcere palermitano di Pagliarelli e vanno a fare volontariato, poi la sera rientrano in cella. «Questa è gente che non cambia», Santino Di Matteo continua a ripeterlo. «Come si fa a non capirlo?».
Di questi tempi, sono tante le cose che non si capiscono in quest’antimafia che sembra diventata schizofrenica. Racconto a Di Matteo che non esiste neanche una lista dei mafiosi in permesso premio: dopo gli articoli di “Repubblica” che hanno denunciato più casi, i magistrati hanno chiesto al Dap di fare un monitoraggio. Gli racconto pure che all’Acquasanta, è tornato Raffaele Galatolo, lo strangolatore del clan, anche lui ormai considerato un detenuto modello e per questo premiato con una vacanza a Palermo. E, intanto, nello stesso quartiere, lo Stato non riesce ancora a dichiarare vittima innocente della mafia Lia Pipitone, la giovane che nei brutali anni Ottanta di Galatolo e tanti altri si ribellò alla cultura mafiosa e per questo fu uccisa col consenso del padre boss. «E la mia storia ti sembra da meno?», dice lui. «Buttato fuori dal programma di protezione perché cercavo mio figlio». Gli dico: «Ma, all’epoca, subì una condanna per detenzione di armi, si era unito a una banda capeggiata da un altro collaboratore, Balduccio Di Maggio». Risponde: «Ma io non ho fatto del male a nessuno. Cercavo solo mio figlio e dovevo difendermi». Racconta di avere fatto pure ricorso alla giustizia amministrativa contro il provvedimento della commissione centrale di protezione che bocciava il suo ritorno nel programma, così come chiedeva la Procura di Palermo. Il Tar gli aveva anche dato ragione, poi il Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione accogliendo il ricorso del ministero dell’Interno. «Però, i giudici hanno ribadito che devo essere protetto, perché continuo a essere a rischio», ci tiene a precisare. «Ho fatto arrestare centinaia di mafiosi e ancora oggi vengo chiamato dai magistrati per contribuire alle indagini».
All’improvviso, sembra non esserci più confusione in piazza Indipendenza mentre Santino Di Matteo si allontana a passo lento verso corso Calatafimi. Sul tavolino del bar è rimasta la sua tazzina di caffè. Prima di andare via, ha detto: «Ha vinto Giuseppe, li abbiamo messi tutti in carcere i mafiosi più sanguinari. Ma se adesso cominciano ad uscire, il sacrificio di mio figlio sarà stato inutile».