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La destra ferma Malagò: “Non può restare al Coni”. E lo dirotta sul calcio

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Dicono tutti: «Non si mettano le mani sullo sport. Garantiamone l’autonomia». Ma in realtà tutti ritengono di doverlo trattare come fosse una partecipata dello Stato. Tant’è: da domenica, dopo l’uscita pubblica di Giovanni Malagò con cui il presidente del Coni ha comunicato di non essere pronto a una resa, è cominciata la grande partita politica attorno allo sport italiano. I giochi erano partiti già da qualche mese – era aprile quando alcuni emissari di governo cominciarono a proporre a Malagò le prime exit strategy, convinti che si sarebbe potuti arrivare a una soluzione morbida – ma ora le carte sono state scoperte, in maniera in qualche modo inattesa.

Malagò ha chiesto ufficialmente la possibilità di un quarto mandato, così come è stata concessa per legge ai presidenti federali. E il governo ha risposto picche: prima un’intervista del ministro dello Sport, Andrea Abodi, che non lasciava spazio a un possibile cambio della norma. Poi i movimenti della Lega che da tempo ha individuato lo sport come spazio di espansione. E ieri anche Fratelli d’Italia, con la voce ufficiale del partito sul tema, il senatore Paolo Marcheschi, ha chiuso tutte le porte a questa possibilità: «La legge – ha detto ieri Marcheschi – impone un avvicendamento di Malagò: rientra nell’ambito del normale ricambio dei vertici». Dunque: nessun possibile quarto mandato. Però l’esponente di FdI ha provato anche a costruire un ponte: «Giovanni – ha detto – ha dimostrato negli anni le sue competenze e la sua professionalità. Qualsiasi sarà il suo ruolo sono convinto che confermerà le sue capacità anche in altre sedi. Il mio auspicio è che Malagò possa continuare a ricoprire un ruolo di primo piano nel mondo dello sport italiano».

Che significa? A Repubblica risulta che nei mesi scorsi, all’interno del governo, qualcuno abbia cominciato a ragionare sulla possibilità di spostare Malagò nel mondo della Federcalcio: al posto di Gravina, in pessimi rapporti oggi con Abodi. O magari alla Lega calcio. Ma, come ben sa Malagò, non sono partecipate dove con un decreto si fanno le nomine. I processi di elezione arrivano dal basso (dai delegati o dai presidenti delle squadre di A) e il governo non è in grado di fare tutto da solo. Ancor più in un momento di grande conflittualità interna.

Anche perché dentro la maggioranza l’attuale presidente del Coni ha anche molti nemici. Paolo Barelli, capogruppo alla Camera di Forza Italia e presidente della Federnuoto, è il primo. La legge è stata cambiata per lui, in modo da consentirgli di poter correre per un quarto mandato. Ieri Barelli è tornato all’attacco: «Malagò si ascrive i successi del medagliere? I meriti sono in primo luogo delle società sportive». Ma Barelli, e la sua norma ad personam, sono il punto debole della posizione del governo. Lo sa l’opposizione che, non a caso, ieri ha attaccato lì: «Una norma sul limite dei mandati è doverosa e sacrosanta ma deve valere per tutti» ha detto Mauro Berruto, l’ex allenatore del volley oggi deputato del Pd. «Non si può non denunciare che qualcuno che siede in Parlamento si è “auto-fatto” una legge che gli permette di andare potenzialmente all’infinito con i limiti di mandato e che quella legge esclude qualcun altro che non può avere lo stesso trattamento. Questo è incoerente». «Bisogna evitare che il governo dei cognati provi a mettere le mani anche sul Coni. Lo sport è e deve restare indipendente» ha detto ieri Matteo Renzi.

Che accade, quindi? Chi è vicino a Malagò è convinto che non accetterà nessuna exit strategy: in caso resterebbe nel consiglio Cio e poi c’è Milano-Cortina. Ma proprio le Olimpiadi invernali sono considerate dai nemici di Malagò il suo tallone di Achille: i ritardi, le inchieste sul management, le incompiute, i fondi impazziti sono gigantesche cariche di esplosivo sotto la sua sedia. E c’è chi pensa già a un commissariamento, come tra l’altro già è successo con i Giochi del Mediterraneo. La partita è appena cominciata.

 

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