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A Valle Galeria vivono trentamila persone e non c’è niente, a parte il tanfo chimico della discarica e un bar. I ragazzi del comitato si trovano lì. Quando domando quale bar, mi date l’indirizzo?, sorridono. Ce n’è solo uno, non ti puoi sbagliare. È dove la strada si allarga un po’, no non una vera e propria piazza, no, diciamo una specie di piazzale, uno slargo. È a duecento metri dall’ingresso di Malagrotta. No, il numero civico non c’è. Almeno non credo, aspetta. Ehi scusa, il bar ha un numero civico? No, guarda, non c’è. È il bar, e basta. Uno ce n’è.
Le strade senza marciapiedi e dai nomi sardi
A Valle Galeria – Roma, municipi XI e XII – le strade non hanno marciapiedi e i campi ai lati delle strade non sono campi ma distese di buche, montarozzi – si dice qui – cioè piccoli rilievi di detriti coperti da un po’ di terra, chissà cosa c’è sotto. Impianti industriali molti dei quali in apparenza abbandonati, vecchie fattorie, anche quelle disabitate. Più in là, in lontananza, qualche casa isolata e ancora più in là dei condomini, all’orizzonte. “Edilizia spontanea”, si chiama. Massimina Pisana Muratella Malnome, Castel Malnome. C’è un comprensorio in cui tutte le strade hanno il nome di un paese sardo: via Gavoi, via Siligo, via Nulvi. Siligo, per, dire è un paese di 900 abitanti. Come mai le strade hanno nomi dei borghi sardi? Boh, nessuno ha una risposta. A giugno c’è stato un enorme incendio, all’impianto: nuvole nere e pioggia di cenere, l’odore acido è arrivato al Colosseo. I giornali ne hanno parlato due giorni, poi basta.
Francesca, Elettra e gli altri abitano qui, fanno un gesto largo della mano, in tondo. Roma Sud-Ovest: l’area che dalla sede della Regione Lazio va verso Fiumicino. Insisto, ma no. Non ci sono biblioteche, cinema, figuriamoci teatri, nessuna discoteca, impianti sportivi zero, non c’è un campo da calcio, no, non c’è nemmeno un pub. Nessun altro posto dove stare insieme se non quest’unico bar, “oppure vai a casa di qualcuno”. Ma i ragazzi di Valle Galeria non si conoscono tra di loro, è difficile perché non c’è nessun posto dove si siano mai incontrati dopo le scuole elementari. Qui, difatti, non ci sono neppure le scuole. Una sola media per tutto il comprensorio, trentamila persone non le novecento di Siligo, scusate se ripeto. Superiori nessuna. L’istituto secondario più vicino è a Bravetta, ma la maggior parte dei ragazzi smette di studiare a quindici sedici anni e cosa fa?, chiedo. Niente.
“Andarsene è il sogno di tutti”
Cosa fai a sedici anni, minorenne, senza titolo di studio, che lavoro trovi? Puoi fare il cameriere al nero, al massimo, in città. Ma in città come ci vai a sedici anni se non ti ci portano, non ci sono gli autobus per tornare a casa. C’è una sola linea, che arriva qui, e smette di viaggiare alle 23. Devi aspettare diciott’anni, allora puoi fare il rider. Sennò te ne vai. Ecco. Te ne vai. “Andarsene è il sogno di tutti”, ride Francesca.Volontari per la tutela dell’ambiente, “diciamo così perché è questo, sì, che facciamo, ma non solo questo. Il volontariato è una via d’ingresso per vincere l’inerzia tutto intorno, mostrare che tanto si può fare”. Questi ragazzi, ventenni, si occupano dei veleni nella terra su cui camminano e nell’aria che respirano, della salute delle persone e della sicurezza del pezzo di mondo dove gli è toccato in sorte di vivere ma del mondo grande, in generale.
Cresciuti tra discariche e dossi
Cresciuti fra un impianto chimico, un sito di stoccaggio e una discarica fanno “azioni di bonifica dimostrative”: vanno con le carriole a togliere immondizie di ogni genere dalle strade senza numeri né uscita ma soprattutto, direi dopo aver parlato a lungo con loro, quello che fanno – la peculiare azione di volontariato che svolgono – è provare a stanarsi l’un l’altro. A tirarsi fuori da casa. A trovarsi. Parlarsi. A spiegarsi che non è ineluttabile, questo destino. Si può cambiare e tocca a loro solo che bisogna “essere consapevoli della possibilità di farlo”, dice Elettra, e guarda che sembra una cosa semplice ma non lo è per niente, perché “la maggior parte è scettica, diffidente, passiva rispetto a quello che succede fuori. Non gliene frega niente della puzza chimica della discarica del veleno, pensa che il mondo è così e basta, se i nonni sono morti di tumore è normale, di qualcosa si muore, alla fine, specie da vecchi”. Dunque in primo luogo, bisogna trovarli, parlarci, spiegargli che invece cambiare si può.
Valle Galeria è il punto dove il volontariato per l’ambiente, la politica, il senso che ha stare al mondo e il futuro concreto di chi ha vent’anni si toccano. Sempre in qualche modo si toccano, e ce ne sono tanti in Italia di posti così. Qui, ai tavolini di questo bar, ha sede il “Comitato dei giovani di Valle Galeria” che si è costituito due anni fa, nell’estate del 2020. I partiti politici non sono i benvenuti, e del resto non è che facciano la fila. In ogni caso: non entrerebbero – per statuto. Francesca, Elettra, Norma, Massimo, Gabriele e Federico hanno tutti fra 20 e 22 anni. Nei momenti di massima affluenza al comitato sono stati anche una quarantina, poi con il Covid è diventato tutto più difficile anche se “qui alla mascherina eravamo già abituati, per la diossina”. Francesca ed Elettra parlano a nome degli altri, la prima cosa che dicono è “siamo fortunate”: perché i nonni non sono morti di tumore, i genitori hanno un lavoro e noi siamo andate a scuola, liceo e adesso università. Hanno fatto politica studentesca alle superiori, in gruppi di sinistra. (A Valle Galeria le ultime elezioni le hanno vinte i Cinquestelle, la destra è forte e la sinistra debole).
La manifestazione: “Resistiamo”
Poi il Covid. “Io ho fatto la maturità quella strana, quella senza l’orale” – racconta Elettra – “è stato bruttissimo per tutti stare due anni chiusi in casa ma immagina che cosa è stare chiusi qui”. Ditemi dell’attività del comitato, come si muove, cosa fate? “Due cose, principalmente: andiamo a cercare i ragazzi e parliamo con loro, quindi facciamo volantinaggio ma anche proprio semplice iniziativa di conversazione. Tipo, per esempio: loro vanno a giocare a calcio al Parco della Pace, dietro alla Regione Lazio, e noi andiamo lì a volte con un banchetto a volte senza, diamo dei volantini, o ci parliamo. Organizziamo manifestazioni. Il 25 aprile dell’anno scorso ne abbiamo fatta una, al Parco, intitolata “Resistiamo”. Era per la data, certo, ma anche per raccontare di come facciamo resistenza allo scempio del nostro territorio. È stato molto bello, perché c’erano ragazzi e ragazze che giocavano a palla e si sono avvicinati, una di loro ha preso la parola e ha detto mi sono emozionata, oggi, è la prima volta che sento dire queste cose, è la prima volta che penso che qualcuno sta parlando proprio di me, della mia vita”.
La bonifica fotografata
Aggiunge Elettra. “È difficile capire i problemi, quando vivi così in posti come quello dove viviamo noi ti sembra che sia tutto normale. Se c’è già una discarica ce ne possono essere anche due, se le strade sono piene di immondizia e non c’è la luce, ti abitui. Se nessuno parla di te, della tua vita, se è come se tu non esistessi come fai a occuparti degli altri, come ti può venire in mente?”. Invece, “Roma siamo noi, diciamo quando facciamo le azioni di bonifica”. Che bonifica, esattamente. “Per esempio andiamo a pulire – metti – via della Pisana. Pubblichiamo l’itinerario sui social, lavoriamo soprattutto con Instagram. Diamo appuntamento in un posto, diciamo di venire se possibile con le carriole. Sì tutti hanno una carriola, quasi tutti: nel campo, in cortile, in officina. Poi si pulisce e si fotografa per mostrare cosa abbiamo fatto, si dà appuntamento a qualcuno dell’Ama – uno che conosciamo, che sta nel Comitato perché non è che di solito la nettezza urbana la chiami al telefono e arriva dopo mezz’ora, a Ponte Galeria – e il furgoncino porta via tutto. Poi, sempre sui social, si spiega: abbiamo pulito, oggi, ma non siamo noi che dovremmo fare questo. Certo, pulire davanti a casa ok, va bene, ma chilometri di strada no, quello lo deve fare chi amministra la città”.
Non è inevitabile vivere così, è sbagliato – ripetono. “Noi siamo nati qui, nell’agro portuense che una volta era una zona agricola, per storie di famiglia, per ragioni economiche. Qualcuno ha i nonni che ci avevano costruito casa prima che arrivasse la discarica di Malagrotta, poi ci sono rimasti, i figli ci sono nati, e dopo i figli i nipoti. Altri sono venuti perché costa poco, vivere qui era un modo per mantenere la famiglia con gli stipendi che vengono da lavori precari, stagionali, incerti. All’inizio qualcuno ha pensato è campagna, i bambini crescono sani. Poi è arrivato l’inferno chimico. Oleodotti rifiuti speciali, qualunque cosa seppellita sotto terra o dispersa nell’aria. Ma di questo non si parla. Quando c’è stato l’incendio, a giugno, ci hanno detto non aprite le finestre non accendete l’aria condizionata non uscite non mangiate cose dell’orto e non portate fuori i cani. Ok, come si fa a non portare fuori il cane? E a stare dentro casa con le finestre chiuse per giorni, senz’aria, con quaranta gradi? Ma tranquilli, è per poco – hanno detto – Una settimana al massimo, poi potete di nuovo mangiare i pomodori dell’orto ma lavateli, magari. Vedrete che per il resto saranno buonissimi”.
“Cosa respiriamo qui?”
“No, dati recenti sui tumori non ce ne sono. Sono vecchi, quelli ufficiali, ma tutti lo sanno come vanno le cose: tutti hanno in famiglia o fra gli amici qualcuno che si è ammalato. Anche questo: sarebbe giusto saperlo, no? cosa c’è nell’aria che si respira. Anche se poi non è che puoi fare molto, le famiglie ormai sono qui e i più giovani appena possono se ne vanno. Ma se se ne vanno tutti, come cambiano le cose? Se tutti scappano, allora questo posto è condannato davvero”. Appena posso me ne vado, dicono i ragazzi del Comitati di Valle Galeria, non può essere l’obiettivo della vita. Lo dicono coi cartelli, coi volantini, con le carriole. Appena posso me ne vado non può essere l’unico sogno. Non dovrebbe, a vent’anni, almeno.