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La scomparsa di Antonio Strangio, figlio di un boss della ‘ndrangheta: resti umani nella sua auto

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Un suv bruciato, resti umani completamente distrutti dalle fiamme, collanine, brandelli di un giaccone. Torna a scorrere il sangue a San Luca, paesino della Locride, in Calabria, che i clan di tutto il globo considerano “mamma” e il marchio della ‘ndrangheta. Ma non si vede, o almeno non ancora.

Ufficialmente Antonio Strangio, 42enne allevatore di San Luca, è scomparso. Casellario non troppo saturo, ma parentele di rango, Strangio non si trova da lunedì scorso. O almeno, questo ha segnalato la famiglia ai carabinieri quando quella sera non è tornato a casa.

Del suo suv sì, le tracce sono state trovate. La carcassa completamente carbonizzata è stata individuata nelle campagne fra Bianco e Bovalino, a una decina di chilometri da San Luca. Nel cofano, resti che inizialmente spifferi hanno indicato come di pecora. Ma lì dentro a bruciare fino a consumarsi è stato un corpo umano.

Nel bagagliaio hanno trovato i residui plastici di quello che era un giubbotto, gioielli fusi dalle fiamme, la sagoma di quel che resta di un corpo disteso su un fianco. Le fiamme hanno risparmiato poco o nulla. Che si sappia, c’era solo qualche dente e dei frammenti ossei, forse di mandibola.

Da investigatori e inquirenti, non arriva nessuna conferma, né può arrivare. Senza un esame, anche solo preliminare, del Dna, nessuno può dire che quello che è stato trovato sia un corpo umano, né di chi. Burocrazia investigativa. La famiglia però sembra già piangere il morto.

A San Luca e paesi limitrofi è comparso un manifesto. Curiosamente, non c’è il logo dell’agenzia di pompe funebri, né la comunicazione del “triste annuncio”, ma sembra in tutto e per tutto la sgrammaticata comunicazione di un lutto. E il messaggio inquieta. Perché gli Strangio e gli Scalia, la famiglia della moglie dell’allevatore, “ringraziano a tutti” ma “dispensano dalle visite”.

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Alessia Candito

03 Maggio 2023

Troppo il dolore o troppo ancora il tempo necessario per comprendere se l’omicidio (o formalmente scomparsa) sia maturato in paese? Il paese è deserto. In pochi si fanno vedere.

Da anni, a San Luca non scorreva sangue, la composizione della faida culminata con la strage di Duisburg e una nuova spartizione di quote e rotte del narcotraffico sembravano aver garantito la pace fra i quattro principali clan. Equilibri che potrebbero essersi rotti? Troppo presto per dirlo. Il fascicolo formalmente è ancora a Locri, ma alla procura antimafia di Reggio Calabria, oggi diretta dal facente funzioni Giuseppe Lombardo, è allarme rosso. Un segnale di tensione così netto dal territorio non arriva da anni e inevitabilmente desta preoccupazione: la Locride è zona calda. Da sempre.

Gli Strangio che oggi si chiudono a riccio e a lutto, non sono della stessa linea di sangue della famiglia coinvolta nella faida, né parenti dei Nirta La Maggiore, aristocrazia della ‘ndrangheta mondiale con casa a San Luca. Sono conosciuti come i “Barbari” e sono feroci.

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Delle infinite forme dell’organizzazione criminale calabrese, rappresentano quella più tribale, feroce, capace di reazioni efferate. Il padre di Antonio, Peppe Strangio nella storia dei sequestri – industria che ha portato in dote soldi, relazioni e capacità di ricatto – ha avuto un ruolo. E non defilato. Già condannato nel ’74 a 14 anni per un omicidio commesso il 2 febbraio del 1970, conta una serie di condanne – definitive – legate ad alcuni sequestri di persona “eccellenti”: Giovanni Piazzalunga, Carlo De Feo e Cesare Casella.

 

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