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«Non bastano più i cortei e le marce, i cartelloni colorati e le belle parole. Anche lo slogan “Non c’è un pianeta B” è superato, non nel senso che non sia più vero, ma perché abbiamo raggiunto un livello di complessità maggiore nella nostra riflessione, che corrisponde alla complessità del problema», lo dice a chiare lettere Marco Modugno, portavoce italiano di Fridays for future al termine dell’assemblea plenaria in cui si sono riuniti 450 delegati da 45 Paesi del mondo per il secondo meeting europeo del movimento che si è creato sulla scia degli scioperi del clima dell’adolescente svedese Greta Thunberg.
Dopo quattro giorni di dibattiti nel Campus Einaudi dell’università, dopo essersi chiusi lavori a gruppi sulle tematiche più disparate, dalle migrazioni a causa del clima alle ecoansie per le trasformazioni planetarie, dopo aver continuato a dialogare fino a notte fonda tra le tende del Climate social camp al parco della Colletta, non c’è un decalogo di richieste precise che non siano quelle ormai diventate ovvie, dalla riduzione delle emissioni inquinanti o i risarcimenti per i danni provocati dal riscaldamento globale o quella espressione diventata un grido: «Giustizia climatica e sociale».
Piuttosto c’è la consapevolezza di essere arrivati a una sfida cruciale i giovani di Fridays for future: «Dobbiamo radicalizzarci», prende la parola Cal Zega, un attivista messicano. Un’espressione forte, l’asticella della lotta si alza? Il dibattito interno è aperto. «Le azioni possono essere radicali anche quando sono non violente», dicono. «Il mondo dell’attivismo è molto grande, non dobbiamo dividerci. Vogliamo tutti lo stesso obiettivo di un mondo giusto dal punto di vista climatico e sociale. E nel fare questo dobbiamo anche inglobare per esempio le unioni dei lavoratori», spiegano. «Ma i modi di agire sono diversi a seconda dei luoghi del pianeta. Ci sono posti in cui si combatte da secoli per le proprie terre», osservano. «Radicalicalizzarci significa andare all’origine delle cose», insistono. E l’origine è il colonialismo «che non è ancora finito soprattutto in chiave finanziaria», spiega l’ugandese Patience Nabukalu, che al meeting ha portato la sua battaglia contro la costruzione di un oleodotto di 1500 chilometri «che ha già fatto sfollare migliaia di persone e ha vietato a intere popolazioni l’uso delle risorse naturali delle loro terre: questo non è sviluppo», attacca. Lei è una dei rappresentanti dei cosiddetti Mapa, acronimo che sta per most affected people and areas, ovvero quelle zone e quelle comunità che ci sono soprattutto nel Sud del mondo, «i Sud globali», e «che soffrono già ora i disastri della crisi climatica pur avendo contribuito molto meno alla loro origine», spiegano gli attivisti.
Intanto stamattina è in programma il corteo per le vie di Torino: «Abbiamo intenzione di usare gli scioperi per fare pressione sulla politica e lo faremo con quello del 23 settembre — conclude Laura Vallaro altra portavoce di Fff Italia — Ma noi non abbiamo intenzione di entrare in politica in questo momento, perché quello che a noi serve è una grande mobilitazione di massa».